Dalla Gran Contea al Regno di Sicilia superpotenza internazionale

Altavilla1

Nei fatti il Duca di Puglia, Roberto, di Sicilia non si poté occupare troppo. Aiutò il fratello Ruggero sulle prime alla conquista dell’Isola, tenne per qualche tempo per sé la città di Palermo, poi solo mezza, e l’alta sovranità sull’Isola, ma non usò mai il titolo di “Duca di Sicilia”. La sua strategia di consolidamento dei possedimenti nell’Italia meridionale e i tentativi di espansione nei Balcani lo portavano lontano.

Fu Ruggero I invece il vero edificatore del nuovo Stato di Sicilia sulle ceneri dell’Emirato in frantumi. Dal 1060 (primo sbarco a Messina) al 1098 (presa di Malta) la sua vita fu un’epopea di conquiste dalle quali sarebbe uscita quella Sicilia che poi sarebbe arrivata sino alla contemporaneità. Al termine di questa epopea l’Apostolica Legazia (1098) riconosciuta da Urbano II garantiva ai sovrani siciliani un controllo autonomo sulla Chiesa siciliana che li rendeva piú simili agli imperatori d’oriente che non a sovrani occidentali.

Ruggero si appoggiò quanto poté su ciò che restava a Palermo dell’amministrazione saracena, molto piú efficiente di quella feudale ancora prevalente in tutta Europa, Italia meridionale inclusa. Anzi potremmo dire che la miscela tra elementi arabi, greco-siciliani, monaci benedettini francesi e la spada dei normanni creò la base per una potenza politica ed economica senza precedenti.

Anche l’amministrazione interna – la divisione in Valli ad esempio – fu complessivamente lasciata, pur se i sovrani normanni su questa ritagliarono una mappa di diocesi vescovili che, con qualche innesto successivo, è tutto sommato ancor oggi riconoscibile.

Lingua e letteratura araba di Sicilia (e delle altre lingue semitiche)

Le lingue semitiche in Sicilia prima degli Arabi:

Come è noto l’arabo giunse in Sicilia sull’onda dell’invasione saracena, iniziata a Mazara nell’827 d.C.

L’arabo appartiene al gruppo delle lingue semitiche, le quali, però, non erano a quel punto del tutto sconosciute nell’Isola.

I primi popoli semitici con i quali vennero in contatto i Siciliani furono i Fenici o Puni, i quali costituirono, a partire dalla prima metà dell’VIII sec. a. C. i loro “empori” qua e là sulle coste dell’Isola. Questi dovevano essere all’inizio dei fortini permanenti, abitati da pochissime persone, che servivano per favorire gli scambi con le popolazioni native e come base per le lunghe navigate trans-mediterranee di cui si gloriarono i Fenici sul finire dell’Età del Bronzo.

La colonizzazione greca, più massiccia, a partire dalle ultime decadi dello stesso secolo, costrinse i Fenici a smobilitare nelle zone di maggiore presenza ellenica e di rafforzarsi in alcuni presidi nell’estremo occidente dell’Isola, da dove avrebbero potuto avere la protezione dall’unica grande colonia di popolazione che la città di Tiro aveva fondato, Cartagine, già sul finire del IX secolo a. C. (si ricordi la leggenda della regina Didone, fondatrice della grande città punica). Da questa concentrazione i quattro fortini dell’Ovest (Mozia, Trapani, Palermo e Solunto) diventarono vere e proprie cittadine, che man mano crebbero di popolazione ed importanza.

Per quanto riguarda la lingua, che più qui ci interessa, tuttavia nell’Antichità si nota un fenomeno in apparenza paradossale. Man mano che le piccole città-stato fenicie si venivano legando sempre più a Cartagine, che finì per considerarle un vero e proprio dominio o provincia (“epicrateia” dicevano i Greci), etnicamente queste città si popolavano di gente affluita da altre parti dell’Isola, e quindi di lingua sicula o greca.

L’origine della Questione Siciliana in un’investitura impossibile

Quando entrano in scena i Normanni le questioni giuridiche siciliane diventano particolarmente controverse e soprattutto molto piú complicate rispetto alla piana condizione “provinciale” che per innumerevoli secoli aveva caratterizzato la Sicilia e questo ci costringe a tirare il freno a mano e a fare un po’ di “moviola” su quegli anni cruciali.

Per alcuni storici, andando alla sostanza, c’è poco da capire: l’XI secolo è quello in cui un popolo venuto dalla Normandia (e qualche secolo prima dalla Norvegia) passa dallo stato di capitani di ventura all’inizio del secolo a quello finale di padroni della Sicilia e di tutta l’Italia meridionale con la sola esclusione del piccolo Ducato di Napoli e dell’Abruzzo, questo ancora saldamente inserito nel sistema feudale dell’Italia centro-settentrionale.

Ma, seppure confusamente, anche allora c’era un diritto pubblico e un bisogno di legittimare le conquiste con il diritto. Ecco, noi – d’ora in poi – esamineremo con la lente d’ingrandimento tali questioni di legittimità dando su di esse anche il nostro modesto parere.

La prima fonte di complessità che incontrerà la condizione della Sicilia al suo rientro nel mondo cristiano era che essa aveva lasciato un mondo ancora complessivamente unitario, in cui era riconoscibile la traccia dell’antico Impero Romano, ed ora trovava invece “due” cristianità, l’una latino-occidentale e l’altra greco-orientale, che si erano a vicenda scomunicate e non piú riconosciute.

Lingua e letteratura siciliana greca (III parte)

L’età saracena:

Durante l’invasione saracena la letteratura greca si restringe e decade man mano che gli arabi avanzano. Nelle terre da loro conquistate il greco è ancora la lingua liturgica dei cristiani sottomessi, mentre – come lingua parlata – si divideva il campo al solito con quella di ceppo latino. È probabile che questa parte di popolazione, concentrata di più nel Val di Mazara, si sia convertita più ampiamente all’Islam di quella greca.

Sta di fatto che la presenza di comunità di lingua greca nella parte occidentale dell’Isola sia quasi sparita, tranne a Palermo, dove la lingua greca era ancora parlata alla venuta dei Normanni da parte di una piccola comunità. Più cospicua la comunità dei greco-siculi in Val di Noto, ma ancor di più in Val Demone, dove si rifugiarono in gran parte i cristiani dell’isola. I nomi, le iscrizioni sopravvissute, ogni reperto di quell’epoca, ci parla di un mondo che parlava greco quando ormai i legami con l’Impero Romano d’Oriente si erano troncati, segno di una vitalità propria di questa lingua, almeno in una parte del Popolo siciliano.

Forte in quegli anni è l’esodo di Siciliani, di ogni lingua, verso le terre dell’Impero bizantino, ma soprattutto verso la Calabria e il Salento, che videro rafforzare i legami già forti con la Sicilia, sia per l’afflusso di elementi che parlavano il più antico Siciliano, sia per la componente propriamente greca, che in Calabria addirittura appare ora prevalere su quella latina.

Lingua e letteratura greca di Sicilia (II parte)

L’età ellenistica:

A differenza della Grecia propria e dell’Oriente la Sicilia non conobbe un vero e proprio Ellenismo dal III secolo a. C. in poi: mancavano le grandi monarchie assolute (quelle siciliane erano sempre un po’ “repubblicane”), restava la forte autonomia delle città-stato; in una parola la Sicilia si attardava sul classicismo e, non ultimo, fu tra le prime zone elleniche ad essere conquistata da Roma. Tuttavia in questo periodo si ricordano ancora figure importantissime per la storia della cultura mondiale: commediografi, come Apollodoro di Gela, poeti come Teocrito, eruditi poeti/filologi come Mosco, storici/utopisti politici come Evemero di Messina, e scienziati come il grandissimo Archimede, con il quale la Civiltà siceliota – per così dire – chiude nel più glorioso dei modi.

Teocrito, in particolare, vissuto tra il 305 e il 250 a.C. circa, fu l’inventore dell’Idillio o poesia arcadica, o bucolica. Nacque a Siracusa dove arrivò ad operare alla corte dell’ultimo grande re siceliota, Ierone II; poi si trasferì nella raffinata Alessandria d’Egitto, sotto la protezione dei re Tolomei, e infine nell’isola di Cos, dove morì. Di lui ci è pervenuto un corpus di poesie, 30 in tutto, ma sono noti altri titoli oggi andati perduti. Le sue poesie, che poi avrebbero fatto scuola nei secoli, dal poeta latino Virgilio fino alla moda dell’Arcadia nel XVIII secolo, descrivono ambienti pastorali ed agresti, immersi in una natura incontaminata, in cui personaggi mitologici, alcuni dei quali poi ricorrenti nei nomi, quali Tirsi o Dafne, vivono in un mondo semplice, poetando d’amore, spensierati. Non mancano talvolta in questi componimenti, pur un po’ devianti sul cliché della vita pastorale, spunti di vera lirica, descrivendo paesaggi in cui l’anima si rifugia libera, quasi come in un sogno. Fu anche grande cantore, più di altri contemporanei, dell’amore, in particolare di quello infelice e non corrisposto.

LA SICILIA AI SICILIANI di Antonio Canepa

Testo Tratto dall’opuscolo di Antonio Canepa pubblicato clandestinamente in capitoli staccati a Catania, alla fine del 1942. Riunito in volume nel 1943 e distribuito alla macchia. L’edizione del 1942 era firmata “Mario Turri” Che cosa ci insegna la geografia e Che cosa ci insegna la storia La Sicilia è un’isola. Da ogni parte la circonda il mare. Dio … Continue reading “LA SICILIA AI SICILIANI di Antonio Canepa”

Lingua e letteratura greca di Sicilia (I parte)

Le origini:

Il greco, come lingua, fu portato in Sicilia dai primi coloni che arrivarono qui nell’VIII secolo a. C. Da allora la Sicilia cominciò a parlare e scrivere in greco per secoli. La letteratura greca di Sicilia abbraccia un arco di tempo lunghissimo, arrivando ad estinguersi soltanto verso la fine del Medio Evo.

I greci di Sicilia non erano colonizzatori nel senso che sottomettevano le popolazioni originarie ad un dominio straniero. Lo erano nel senso che si stabilivano in Sicilia con le famiglie al seguito e si fondevano, più o meno pacificamente, con gli antichi abitanti dell’Isola.

Quando sbarcarono nell’Isola i Greci vennero con i loro dialetti. La maggior parte di loro, quelli di Siracusa, di Agrigento, di Imera, parlavano il dialetto dorico, lo stesso parlato dagli Spartani e dai popoli del Peloponneso; alcune colonie, invece, soprattutto nella parte nord-orientale dell’Isola, parlavano il dialetto ionico (Messina, Naxos, Catania), lo stesso che si parlava in gran parte delle raffinate colonie greche dell’Asia Minore (Mileto, Efeso) e praticamente lo stesso che si parlava nella stessa Atene. In breve tempo, visto che Siracusa era la capitale della Sicilia greca e Agrigento comunque la seconda città, il dialetto dorico prevalse (al contrario di quello che sarebbe successo in Grecia, dove prevalse quello ionico-attico) facendo sparire l’altro.

Lo Stato Arabo-Siculo

La parentesi saracena (da quando questi sbarcarono a Mazara nell’827 a quando, già prima del 1100, nulla del loro dominio rimaneva piú in Sicilia) a rigore con la nostra storia c’entrerebbe poco o nulla.

Nella logica politica del Medio Evo, infatti, il mondo cristiano e quello musulmano erano divisi da un fossato incolmabile ed incommensurabile. Se è vero che ogni tanto si facevano trattati, tregue, come ad esempio quando più volte i bizantini di Calabria accettarono di pagare il tributo agli emiri di Sicilia, è anche vero che questi riconoscimenti di fatto non cancellavano l’inconciliabile diversità di diritto tra i due mondi, risolta in ultima analisi dal filo della spada.

Da una parte e dall’altra c’erano due mondi, due imperi potenzialmente universali, che si confrontavano senza riconoscersi mutuamente. Da un lato l’Impero romano e cristiano, sebbene con una frattura interna sempre più profonda tra “latini” del Sacro Romano Impero e “greci” dell’Impero Romano d’Oriente; dall’altro il Califfato arabo e musulmano, in cui la massima autorità politica coincideva con quella religiosa.

In questo senso, dal punto di vista cristiano, la conquista araba della Sicilia fu nient’altro che un’occupazione, una dominazione da riscattare con una “reconquista”, con una “liberazione” dei cristiani dal giogo del barbaro infedele. Mentre dal punto di vista opposto, quello musulmano, la Sicilia era stata una terra, l’ultima, strappata agli infedeli per mezzo della Guerra Santa, e quindi liberata all’unica Verità, quella proclamata dal Profeta e trasformata in terra di Islam.

Perché ne parliamo allora?

La Sicilia Provincia dell’Impero

A differenza del confine amministrativo interno, quello sul Siculum Fretum (lo Stretto di Messina) era un vero e proprio confine politico, ancorché interno allo Stato romano.

La Sicilia fu per la prima volta nella sua storia laboratorio politico. La formula della “Provincia”, infatti,

una volta brevettata per la Sicilia, sarebbe stata usata di lí a poco per la “Sardinia et Corsica” e via via per gli altri possedimenti romani, sino a diventare il modo normale per organizzare le conquiste di una formazione politica dai confini sempre piú ampi.

Diverso era stato per l’Italia. Questa era stata associata a Roma in una Confederazione con vincoli differenziati e complicatissimi, diversi da città a città. Con il noto Divide et impera ad alcuni municipi era stata data la piena cittadinanza romana, ad altri quella “latina” (una sorta di cittadinanza di serie B), ad altri ancora un vincolo “federale”, in pratica un’alleanza stabile come quelle che la stessa città di Roma concludeva con città e stati fuori dalla Penisola: Messina, Marsiglia, Atene, per fare solo tre famosi esempi.

Se già nell’antichità greca la distinzione tra Italia e Sicilia, e tra Italioti e Sicelioti, era stata netta e politica, non certo solo geografica, ma pur sempre nel quadro di una sicura comunanza culturale, in epoca romana la frattura tra Sicilia e Italia è totale: lo Stretto di Messina segnava a Sud, come il Rubicone e l’Arno a Nord, lo spartiacque tra dominatori e dominati.

Nel tempo queste differenze però andarono sfumando.

Le antichissime lingue di Sicilia

                                                                                  
12669343 233961953604645 1029250526 oLe prime testimonianze storiografiche attendibili che parlano della Sicilia prima dei Greci le dobbiamo proprio ai Greci stessi, ed in particolare a Tucidide, storico scrupolosissimo, il quale ci dice che, a parte i Fenici o Cartaginesi che contendevano le coste ai Greci, le popolazioni autoctone dell’Isola erano tre: la più numerosa era quella dei Siculi che abitavano la Sicilia dal Salso verso est, che sarebbero venuti nell’Isola circa trecento anni prima dei Greci (e quindi alla fine dell’XI secolo, intorno al 1000 a.C). Ad ovest del Salso erano i Sicani. Nell’estremo nord-ovest, essenzialmente nelle città-stato di Segesta ed Erice, trovavamo infine gli Elimi. Sulla venuta dei due Popoli più antichi le memorie storiche degeneravano nella leggenda: più tardi sarebbero arrivati gli Elimi, venuti dall’Asia Minore, e in particolare da Troia, dopo la sua distruzione (e quindi intorno al XII secolo a.C), mentre i Sicani sarebbero ancora più remoti, e addirittura con più di una leggenda sul loro insediamento: una remotissima dalla Spagna, un’altra, un po’ meno antica, dai Liguri d’Italia.

Ancor prima di questi popoli, tutto sommato attestati storicamente, si affonda nella mitologia pura, che favoleggiava di popoli poi estinti misteriosamente: i feroci Lestrigoni, e, ancor prima, i mostruosi Ciclopi.

Perché perdere tempo con le antiche favole greche? Perché dietro queste storie, e sempre più man mano che ci si avvicina ai loro tempi, si scorgono tracce di verità storiche tramandate a voce e pertanto alterate dalla fantasia. La ricerca archeologica più recente, per esempio, ha accertato come vera la notizia sull’insediamento dei Siculi, anche sull’epoca indicata da Tucidide, mentre più confusi, ma non del tutto inventati, appaiono i riferimenti per gli altri due popoli.