di Fabio Petrucci
La crisi siriana continua a preoccupare il mondo. Il presunto attacco chimico avvenuto a Duma il 7 aprile scorso – rapidamente addebitato al governo siriano come in altri casi analoghi – ha aperto la strada ad una nuova e pericolosa escalation diplomatica che potrebbe degenerare in un confronto militare tra i principali attori dello scacchiere mondiale.
Da Stati Uniti, Regno Unito e Francia è giunta l’esplicita minaccia di una reazione armata per “punire” il presidente Assad. Dal canto suo la Russia, principale alleato del governo di Damasco, ha posto in evidenza i rischi a cui il mondo andrebbe incontro in caso di ritorsioni militari realizzate fuori da qualsiasi mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Forse non è un caso se nelle ultime 24 ore, dopo un tweet decisamente poco felice indirizzato alla Russia nella giornata di mercoledì, anche il presidente statunitense Donald Trump sembra aver fatto almeno parzialmente marcia indietro. In Europa, mentre la Germania appare molto defilata, il paese più convinto della necessità di un intervento militare è la Francia, ma il presidente Macron ha evitato di sbilanciarsi sulle tempistiche e gli obiettivi logistici dell’ipotetico intervento.
L’Italia, per bocca del premier uscente Gentiloni, non parteciperà ad alcun intervento militare, ma il rischio che le basi USA e NATO presenti sul suolo italiano – compresa la siciliana Sigonella – vengano utilizzate per azioni dirette contro la Siria non può essere totalmente scongiurato. È di soli due giorni fa, infatti, la notizia del decollo di aerei della US Navy da Sigonella in direzione Siria per pattugliamenti; notizia che di per sé potrebbe rientrare nell’ordinarietà delle attività della base siciliana, ma che nello scenario attuale assume caratteri meno rassicuranti. Per questa e per altre ragioni, la questione siriana interessa da vicino la Sicilia, isola strategica al centro del Mediterraneo, lo stesso mare che lambisce le coste del martoriato paese mediorientale.
Ripercorrere sinteticamente alcune tappe della crisi siriana può essere utile al fine di inquadrare meglio gli scenari attuali ed offrire una chiave di lettura alternativa alle manomissioni dei media mainstream occidentali su questa tragica vicenda che va avanti da ormai 7 anni.
Crisi siriana: genesi e sviluppi
La crisi siriana ebbe inizio nel marzo 2011, con le prime proteste scoppiate a Damasco, nell’ambito del più ampio fenomeno delle cosiddette “primavere arabe”. Come accaduto in paesi quali Tunisia, Egitto e Libia, l’obiettivo delle proteste si palesò rapidamente in un tentativo di rovesciamento del governo e dell’ordinamento politico del paese.
Sebbene non si possa negare il genuino desiderio di democrazia con il quale una parte dei manifestanti prese parte alla mobilitazione iniziale, le proteste degenerarono nel giro di poche settimane assumendo il carattere della lotta armata, via via sempre più egemonizzata da organizzazioni sunnite fondamentaliste e poi apertamente jihadiste.
A differenza di quanto avvenuto negli altri paesi coinvolti nelle “primavere arabe”, compresa la cruenta vicenda libica culminata con l’uccisione del colonnello Gheddafi, la crisi siriana è caratterizzata da elementi di più grande complessità legati alle peculiarità politiche, etno-religiose e geografiche del paese; peculiarità tali da contribuire a trasformare una crisi locale in una grande crisi destinata a coinvolgere attivamente i principali attori regionali e mondiali.
A livello politico ed etno-religioso, alla vigilia del conflitto, la Siria si presentava come uno dei pochissimi ordinamenti laici del mondo musulmano. Per quanto guidata da un governo non in linea con gli standard democratici del mondo occidentale, la Siria del giovane presidente di confessione alawita Bashar al-Assad costituiva un modello di convivenza assai raro in Medio Oriente, tanto da ricevere – appena un anno prima dello scoppio del conflitto – un pubblico elogio da parte dell’allora presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano in visita a Damasco, che in quell’occasione espresse apprezzamento per «l’esempio di laicità e apertura che la Siria offre in Medio Oriente e per la tutela della libertà assicurate alle antiche comunità cristiane qui residenti». La presenza al vertice dello Stato di un presidente espressione di una confessione religiosa minoritaria quale è quella alawita (legata all’islam sciita), piuttosto che costituire un elemento di sopraffazione ai danni della maggioranza sunnita (a cui peraltro appartiene la moglie del presidente, Asma al-Assad, nonché svariati esponenti del governo), era e continua ad essere una garanzia per le minoranze, comprese quelle cristiane. Contro questo sistema di convivenza e laicità si è scatenata nel 2011 la coalizione delle principali potenze sunnite della regione (Arabia Saudita, Qatar, Turchia), sia per ragioni ideologiche che per ragioni più squisitamente geopolitiche e strategiche, legate alla definizione degli equilibri di egemonia regionale ed alla politica dei gasdotti. Sono stati principalmente questi paesi – in combutta con gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia – a finanziare ed armare le formazioni jihadiste (composte da “volontari” provenienti da ogni angolo del mondo islamico) responsabili della guerra civile siriana, contribuendo peraltro all’emersione del cosiddetto Stato Islamico (ISIS) nel nord della Siria e in Iraq.
Questa bizzarra coalizione che vede insieme gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita ha però dovuto fronteggiare la decisa reazione – diplomatica prima e militare poi – di un’alleanza alternativa sorta in difesa del legittimo governo siriano, composta principalmente dalla Russia e dall’Iran sciita, paesi che per ragioni diverse sono legati da antichi vincoli di amicizia con la Siria baathista degli Assad. È stato così che una crisi locale ha finito per assurgere a terreno di scontro tra le potenze sunnite e sciite della regione nonché tra i due principali attori nucleari dello scacchiere mondiale, i vecchi antagonisti di un tempo, Stati Uniti e Russia.
L’intervento militare russo concordato con il governo di Damasco ed avviato nell’autunno del 2015, in un momento di grave difficoltà per l’esercito siriano, ha capovolto gli esiti del conflitto in favore di Assad, conducendo anche alla sostanziale sconfitta dell’ISIS nel nord del paese.
L’avvio nel febbraio 2018 dell’offensiva governativa nella Ghuta orientale, fortino jihadista alle porte di Damasco, ha costituito per il governo siriano il più importante successo militare dai tempi della riconquista di Aleppo avvenuta a fine 2016. A inizio aprile, con la sconfitta delle milizie jihadiste attive in quel territorio, tra cui spiccano sigle legate al network di al-Qaeda come Ansar al-Islam e Jaysh al-Islam, la crisi siriana è sembrata potersi finalmente avviare al suo epilogo militare, ma il presunto attacco chimico del 7 aprile, con le successive reazioni internazionali, ha riportato all’ordine del giorno il rischio di una degenerazione del conflitto in grado di porre a serio rischio la sicurezza del Mediterraneo, se non del mondo intero.
Attacchi chimici in Siria: verità o pretesto?
Nel corso di questi anni di conflitto il governo siriano è stato più volte accusato di aver usato armi chimiche, ma le prove fornite a sostegno di queste accuse non hanno mai brillato per trasparenza e oggettività. Il tema delle armi chimiche ha assunto particolare importanza a partire dall’agosto 2012, da quando l’allora presidente Barack Obama dichiarò che l’uso di armi chimiche da parte del governo di Damasco avrebbe costituito la “linea rossa” da non superare.
Il 21 agosto 2013 si verificò il più grave attacco chimico avvenuto in Siria durante il conflitto, a Ghuta, nella stessa regione interessata dagli eventi recenti. Il numero delle vittime di quell’attacco a base di gas sarin spazia da almeno 281 (intelligence francese) a 1429 (intelligence statunitense) e 1729 (ribelli siriani). All’incertezza sul numero si aggiunge quella sui responsabili. Mentre la coalizione occidentale e la Lega Araba puntarono subito il dito contro il governo siriano, la Russia e l’Iran sostennero la tesi della false flag orchestrata dai ribelli al fine di accelerare l’intervento militare statunitense. Si generò dunque un’intensa crisi diplomatica, per molti versi simile a quella di queste ore, con gli USA apparentemente pronti ad intervenire militarmente. Probabilmente fu solo grazie all’abilità diplomatica dimostrata dal presidente russo Vladimir Putin e dal suo ministro degli esteri Sergej Lavrov se la crisi diplomatica del settembre 2013 trovò uno sbocco politico tramite l’adesione della Siria alla Convenzione sulle armi chimiche e la conseguente distruzione dell’arsenale chimico siriano sotto il controllo dell’OPAC.
Quello che qui però preme sottolineare è che già in quell’occasione, la successiva inchiesta dell’ONU – con annessa documentazione finale – non poté accertare le responsabilità dell’attacco, dimostrando l’inconsistenza delle prove prodotte dalla coalizione occidentale al fine di giustificare un proprio intervento militare in Siria. Peraltro, solo a titolo d’esempio, un analista indipendente ed autorevole come Seymour Hersh, Premio Pulitzer nel 1970 per aver portato a conoscenza dell’opinione pubblica il massacro di My Lai durante la guerra del Vietnam nonché autore degli scoop sul trattamento dei detenuti nella prigione irachena di Abu Ghraib, ha sostenuto l’ipotesi secondo la quale l’attacco del 21 agosto 2013 sia stato una false flag orchestrata da milizie jihadiste come al-Nusra.
Nell’aprile 2017 un altro presunto attacco chimico, avvenuto a Khan Shaykhun, nella Siria nord-occidentale, condusse il neoeletto presidente Trump – che in campagna elettorale aveva più volte espresso la volontà di cambiare la rotta della politica statunitense in Siria – a decidere il lancio di 59 missili cruise contro una base aerea siriana; un intervento unilaterale che, per fortuna, rimase estemporaneo e non ebbe seguito.
In relazione all’ultimo attacco, quello del 7 aprile 2018, va rilevato che il 13 marzo scorso il capo di Stato maggiore generale delle Forze armate russe Valerij Gerasimov aveva avvertito circa l’ipotesi di false flag orchestrate dai gruppi jihadisti nella Ghuta e, forse non per caso, tra le formazioni attive nell’area vi è stata Jaysh al-Islam, autodichiarata responsabile dell’uso di armi chimiche contro le milizie curde e i civili ad Aleppo nel 2016.
La speranza è che anche questa volta, di fronte ad un presunto attacco chimico le cui responsabilità sono tutt’altro che chiare, la ragione possa infine prevalere su una follia bellicista che rischierebbe di precipitare il mondo in un baratro.
Le implicazioni per la Sicilia
Quanto accade in Siria, così come quanto in passato accaduto in Libia, interessa da vicino la Sicilia, isola situata al centro del Mediterraneo e, suo malgrado, potenziale base di partenza per operazioni militari contro il paese mediorientale.
La Sicilia, nella sua attuale condizione giuridica di regione italiana, non ha una sua politica estera e di difesa. Essendo priva di sovranità non può decidere di uscire da alleanze militari consolidate come la NATO né di rinegoziare a condizioni migliori la presenza militare straniera sul proprio territorio. L’isola si trova, per così dire, in balia degli eventi.
Tuttavia, un governo regionale serio ed autorevole, avrebbe il dovere di fare tutto ciò che è in suo potere per difendere l’interesse “nazionale” della Sicilia, senza alcun timore reverenziale, facendo valere la sua voce soprattutto nel caso in cui il governo italiano decidesse di autorizzare l’uso delle basi siciliane per operazioni belliche.
Un’ipotetica degenerazione della crisi siriana interesserebbe da vicino la nostra isola. Oltre ad essere un potenziale obiettivo per via della sua posizione strategica e della presenza di basi militari statunitensi, la Sicilia potrebbe divenire terreno di approdo di nuove ondate di profughi; ondate di uomini e donne disperati in fuga da un intervento militare inutile e dannoso, con i principali attori internazionali coinvolti, proprio nel momento in cui occorrerebbe rilanciare il confronto costruttivo sul futuro assetto politico siriano.
Esiste inoltre una questione di fondo da tenere in considerazione: la Sicilia, centro geografico dell’area mediterranea, necessita di pace e stabilità per sperare di ricostruire su basi più solide la propria economia ed il proprio tessuto sociale. In questi anni, da epicentro della civiltà e punto d’incontro di tre continenti, il Mediterraneo è divenuto un mare di disperazione e di guerra. Una grande guerra in Siria non farebbe altro che aggravare questa situazione.
Alla Sicilia, insieme alle altre nazioni lambite da questo glorioso mare, spetterebbe il compito di restituirlo alla sua essenza di fucina della civiltà e fulcro di scambi commerciali e culturali all’insegna della pace e della stabilità.
Fabio Petrucci