di Fabio Petrucci
Relazione presentata in occasione dell’evento “Siciliani: identità e cultura” Giarre, 28 gennaio 2018
Premessa
Ciò che più di ogni altra cosa rende tale una nazione, ciò che ne legittima l’esistenza e – nel caso delle nazioni senza Stato – l’eventuale lotta per l’autodeterminazione è in primo luogo la storia, ancor prima della lingua o delle origini etniche, elementi che in taluni casi possono essere condivisi da più nazioni. Una nazione, specialmente nell’ambito europeo, è quindi tale se possiede una sua storia, istituzionale e politica, che ne rende evidente la soggettività giuridica.
Ebbene, la Sicilia, che ha una sua lingua – seppur convivente con l’italiano e mortificata da un mancato riconoscimento ufficiale – ancora piuttosto viva nel quotidiano dei siciliani, che ha una sua identità culturale dotata di caratteristiche proprie, ma che soprattutto ha una lunga storia istituzionale e politica di Stato sovrano, è a tutti gli effetti definibile come una nazione. Purtroppo una nazione senza Stato da 200 anni. Forse i siciliani oggi non sono pienamente consapevoli di questa realtà. E per questo è necessario invertire la rotta e riscoprire – sotto una luce di correttezza storiografica e di rinnovato patriottismo – la storia siciliana.
Correttezza storiografica e patriottismo sembrano due elementi mancanti nell’odierna narrazione, per così dire mainstream, sulla storia siciliana. Questa, soprattutto sulla scorta delle interpretazioni post-risorgimentali, viene descritta come una sequenza di dominazioni straniere a cui l’imbelle popolo siciliano non sarebbe mai riuscito ad opporre resistenza. Anche opere letterarie di grande successo, come “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, hanno contribuito ad alimentare gli equivoci. La nostra storia dunque va riscritta, sapendo discernere con cura le fonti e agendo tramite una costante comparazione con la storia delle altre nazioni europee. Quest’opera di comparazione, in particolare, risulta importantissima per sfatare alcuni luoghi comuni. Infatti, se alziamo lo sguardo e compariamo la storia istituzionale della Sicilia a quella delle altre nazioni europee possiamo notare non poche similitudini e, di conseguenza, “guarire” da un paradossale complesso di inferiorità tanto dannoso quanto immotivato.
Buona parte della seguente relazione sarà dedicata al Regno di Sicilia nato per volontà di Ruggero II d’Altavilla nel 1130, come evoluzione della Gran Contea fondata dal padre Ruggero I nel 1071. Tuttavia, anche al fine di comprendere la genesi del Regno di Sicilia, si inizierà facendo qualche accenno alla storia istituzionale e politica della Sicilia antica. Un accenno, questo, che serve anche a comprendere come la Sicilia, sin dall’epoca più remota della sua storia, abbia sempre costituito una realtà politica ed istituzionale a sé, con una propria soggettività giuridica.
La Sicilia pre-romana
Partendo dall’antichità pre-romana sappiamo che i primi popoli ad aver abitato la Sicilia furono i sicani e gli elimi, le cui origini sono ancora oggetto di controversia. Successivamente dall’Italia arrivarono i siculi, la prima popolazione certamente indoeuropea a stanziarsi nell’isola, nonché quella destinata a darle il nome. In seguito i fenici (poi cartaginesi) iniziarono la fondazione di alcune colonie di natura commerciale nelle coste dell’intera Sicilia, fin quando la pressione greca non li spinse a concentrarsi nella sola parte occidentale della stessa, dove sorsero Palermo e Mozia. Questa, in estrema sintesi, è la mappa dei popoli della Sicilia alla vigilia dell’arrivo dei coloni greci. Una volta arrivati nell’isola i greci di Sicilia, seguendo la prassi della loro terra d’origine, si organizzarono in varie Città-Stato. Tra di esse si sarebbe poi affermato il primato di Siracusa. I secoli di presenza greca portarono ad una profonda ellenizzazione culturale dei popoli dell’isola. Al tempo stesso i greci di Sicilia assunsero caratteristiche proprie rispetto ai greci della madrepatria, tanto che nel 424 a.C., quando Siracusa si trovò minacciata dalla potenza ateniese, il generale Ermocrate pronunciò una celebre sentenza al Congresso di Gela: «non ci disonora affatto farci concessioni tra compatrioti (…) e in genere tra popoli vicini che abitano lo stesso paese, cinto dal mare, e che sono compresi sotto l’unico nome di Sicelioti» (1). Una nuova identità siceliota era nata, distinta sia da quella dei greci dell’Ellade che da quelli del Sud Italia, chiamati “italioti”.
Ad ogni modo, un primo effimero ma significativo tentativo di dar vita ad una confederazione politica di una certa ampiezza fu opera del re siculo Ducezio, verso il 455-450 a.C. Tuttavia la sua Lega sicula non ebbe molta fortuna. Certamente più fortuna ebbe il Regno siceliota, nato tramite l’espansione dell’egemonia siracusana sulla Sicilia centro-orientale: un processo lento e progressivo, passato attraverso la confederazione di poleis dell’“arconte di Sicilia” Dionisio il Vecchio e la “Symmachia” di Timoleonte, e infine culminato nell’assunzione del titolo di “basileus” (re) di Sicilia da parte di Agatocle attorno al 304 a.C. Questo Regno siceliota, sebbene limitato alla sola Sicilia centro-orientale (e a un pezzo di Calabria), fu – come vedremo – il vero ed esplicito antenato del Regno di Sicilia fondato da Ruggero II nel 1130. Nella Sicilia occidentale invece, fino alla conquista romana, continuò ad avere la meglio l’autorità politica e militare cartaginese, riunita nella cosiddetta “epicrazia”. Non possiamo soffermarci oltre sullo splendore dell’epoca siceliota, basti dire che quella fu una delle ere di maggiore prosperità e fermento culturale nella plurimillenaria storia dell’isola, con Siracusa grande potenza internazionale. Un bilancio finale su questo periodo: la Sicilia nell’epoca pre-romana fu sotto dominazioni straniere? Certamente no, o almeno, sicuramente non lo fu la Sicilia centro-orientale a guida siracusana. Il Regno siceliota, infatti, non dipendeva dalla Grecia e la sua genesi fu una vicenda tutta isolana.
La Sicilia romana e pre-normanna
Al loro arrivo, quindi, i romani trovarono sostanzialmente due entità politiche, l’epicrazia punica a occidente e il Regno siceliota a oriente. La parte occidentale dell’isola cadde in mano romana durante la prima guerra punica, venendo trasformata in provincia nel 240 a.C. Nel corso della seconda guerra punica, invece, fu il Regno siceliota ad entrare sotto il controllo romano (Siracusa fu presa nel 212 a.C.). La dominazione romana, nella quale il Regno siceliota perse la propria indipendenza e l’isola si apprestò a divenire il “granaio dell’Impero”, ebbe paradossalmente due conseguenze positive: 1) per la prima volta la Sicilia fu unificata sotto una medesima realtà istituzionale: la provincia, che continuò ad avere il proprio centro, la propria “capitale”, a Siracusa; 2) in epoca romana andò progressivamente scomparendo – sia tra gli autori stranieri (pensiamo a Cicerone) che tra i siciliani stessi – la residua distinzione tra siculi e sicelioti.
La Sicilia fu il primo territorio conquistato dai romani oltre la penisola italica e, in quanto tale, fu il primo a sperimentare l’istituto della provincia. Questo è un punto molto importante, perché per secoli la Sicilia costituì una provincia a sé nell’ambito del gigantesco Impero romano. Anche quando Augusto, verso il 7 d.C., riorganizzò la suddivisione dei territori italici, costituendo quella che sarebbe divenuta nota come “Italia augustea”, la Sicilia – al pari della Sardegna e della Corsica – ne rimase esclusa. I romani, in sostanza, riconoscevano alla Sicilia uno status che in termini moderni definiremmo di “nazione”. Le province dell’impero, infatti, corrispondevano alle nazioni dell’antichità conquistate dai romani. La Sicilia era provincia a sé come, per fare qualche esempio di nazioni tuttora esistenti, lo erano la Britannia, la Grecia (Acaia), l’Egitto, la Siria, ecc. Diversi secoli dopo, a seguito della riforma che introdusse la ripartizione dell’impero in tetrarchia, la provincia di Sicilia fu accorpata amministrativamente alla nascente Diocesi Italiciana. In Italia c’è qualcuno che sostiene che l’appartenenza della Sicilia alla Diocesi Italiciana, a partire dal 314 d.C., costituisca una legittimazione storico-istituzionale dell’odierna appartenenza della Sicilia allo Stato italiano. Si tratta in realtà di un argomento molto debole: è come se dicessimo che siccome le province di Lusitania e Mauretania (attuali Portogallo e Marocco) furono accorpate alla Diocesi delle Spagne, allora il Portogallo ed il Marocco oggi dovrebbero far parte della Spagna. In realtà si trattava di meri accorpamenti amministrativi, non politici. Le province restarono tali.
Con il declino della parte occidentale dell’Impero romano, la Sicilia subì per brevi periodi l’influenza militare di popoli barbari di origine germanica, come i vandali provenienti dal nord Africa e gli eruli e gli ostrogoti, che avevano acquisito il momentaneo controllo militare sull’Italia e le terre ad essa vicine, tra cui la Sicilia. Sarebbe comunque erroneo parlare di nuove “dominazioni” in questa fase, sia per il carattere cronologicamente effimero (parliamo di pochi decenni) sia per il fatto che, de jure, la Sicilia continuava ad essere provincia dell’Impero. In quest’ottica va quindi letta la “riconquista” bizantina del 535. Anche qui non si può parlare di una nuova dominazione, perché la Sicilia, almeno formalmente non aveva cessato di essere provincia romana e i cosiddetti “bizantini” non erano altro che “romei”, ossia romani d’Oriente, cittadini romani come lo erano ormai da secoli anche i siciliani stessi. Anzi, nel periodo cosiddetto “bizantino”, sebbene per pochi anni, Siracusa fu persino capitale imperiale. La Sicilia dell’ultimo periodo “bizantino”, peraltro, andò acquisendo una crescente autonomia politica. Da sottolineare c’è una cosa: l’appartenenza della Sicilia al mondo bizantino, oltre ad influire in maniera importante sulla lingua, sulla tradizione religiosa e sui canoni artistici ed architettonici dell’isola, preservò la Sicilia dalla più importante esperienza statale “italiana” sviluppatasi prima dello Stato unitario nato nel 1861, ossia l’esperienza del cosiddetto “Regno di tutta l’Italia” fondato dai longobardi. Dunque, ancora una volta diversi furono i destini istituzionali della Sicilia e di buona parte dell’Italia (non di tutta, a onor del vero, perché i longobardi non riuscirono mai a conquistare, per esempio, le propaggini più meridionali dello Stivale, rimaste in mano bizantina).
L’età bizantina conobbe il proprio epilogo con la conquista islamica, iniziata nell’827 e ultimata dopo oltre un secolo, con la presa di Rometta, ultima importante roccaforte bizantina, nel 965. L’epoca islamica rappresentò per la Sicilia una svolta molto brusca rispetto a tutta la storia precedente. La Sicilia, culturalmente appartenente al mondo greco-romano (europeo) e ormai cristianizzata da secoli, si ritrovò sotto un governo extraeuropeo e musulmano. Per queste ragioni si può certamente parlare di una dominazione in senso culturale e religioso.
Dal punto di vista istituzionale il quadro però è più complesso. A tal proposito una data da ricordare è il 948, anno in cui la Sicilia islamica divenne un emirato largamente autonomo sotto la guida della dinastia kalbita. Gli emiri, residenti a Palermo, nuova capitale siciliana, col tempo asssunsero il titolo di “malak” (re), mantenendo vincoli pressocché solo formali con il Califfato fatìmide. Tuttavia, lacerato da profondi contrasti politici tra i vari capi locali, l’emirato si ridusse in frantumi in meno di un secolo. La divisione politica tra i vari autoproclamati emiri locali e la collaborazione data ai normanni dai non pochi siciliani rimasti fedeli al cristianesimo, favorì la rapida riconquista cristiana di Ruggero I e Roberto il Guiscardo, iniziata nel 1061 e portata a completamento nel giro di pochi decenni.
L’arrivo dei normanni e il contesto europeo
L’epopea degli Altavilla in Sicilia può essere considerata, sotto molteplici punti di vista, come il mito fondativo della nazione siciliana per come essa si è sviluppata negli ultimi mille anni. Ruggero I e suo figlio Ruggero II possono, a ragion veduta, essere considerati (e infatti in passato ciò avveniva) come i nostri “Padri della Patria” (2). E in effetti la “conquista” normanna fu vissuta dai siciliani “indigeni” come una liberazione e come tale essa è stata tramandata per secoli, incidendo profondamente sull’identità siciliana, sul piano politico, religioso e folclorico. In questo processo di ricostruzione politico-culturale le fondamenta furono gettate da Ruggero I, il minore dei fratelli Altavilla giunti dalla Normandia, ma quello destinato a lasciare il segno più indelebile.
Sui normanni però cominciamo con il dire questo: l’età che ebbe inizio con la crisi dell’Impero romano d’Occidente (V secolo d.C.) diede impulso ad un periodo di grande protagonismo dei popoli germanici in Europa occidentale e non solo. Questi popoli, tutti originari della Scandinavia o delle regioni immediatamente limitrofe, furono protagonisti di numerose migrazioni e della fondazione di vari regni più o meno duraturi. Per secoli, fino alla conquista normanna del 1066, la Gran Bretagna fu attraversata da migrazioni di popoli come gli juti, gli anglosassoni e poi i vichinghi; in Spagna fu creato un regno visigoto; in Italia passarono gli eruli e gli ostrogoti, i quali poi cedettero il passo ai longobardi; nel Nord Africa si stabilirono i vandali (che per breve tempo occuparono, devastandola, la stessa Sicilia); nella lontana Russia vichinghi svedesi diedero vita al nucleo originario dello Stato russo e a una dinastia destinata a regnare in quelle terre addirittura fino alla fine del XVI secolo; l’attuale Francia, ossia la Gallia dei tempi romani, deve il suo nome al popolo germanico dei franchi. Sempre in Francia, nella parte settentrionale del paese, tra la fine del IX secolo e l’inizio del X si stabilirono colonie vichinghe, che diedero vita al Ducato di Normandia, lo stesso da cui originarono i futuri sovrani di Sicilia. A cosa è servita questa carrellata di informazioni? A comprendere che, lungi dal rappresentare un caso singolare di terra di conquista, la Sicilia con i normanni seguì il medesimo destino di alcune delle più importanti nazioni europee. Nella storia europea l’“autoctonia” delle famiglie reali è più un’eccezione che la regola. In moltissimi casi le dinastie non nascevano “indigene”, lo diventavano.
Dunque, alcuni gruppi di normanni arrivarono in Italia meridionale poco dopo l’anno mille. Tra le famiglie emigrate quella che riuscì ad acquisire ben presto l’egemonia fu il casato degli Altavilla. Prima di approdare in Sicilia gli Altavilla contribuirono a mettere ordine nel caos politico dell’Italia meridionale. Nel 1059, alla vigilia dell’inizio della loro impresa siciliana, Papa Nicolò II investì Roberto il Guiscardo – fratello maggiore del nostro Ruggero I – del titolo di duca di Puglia, Calabria e Sicilia. Dal punto di vista giuridico la nomina di Roberto a “duca” di Sicilia appare molto problematica e meriterebbe una trattazione specifica, ma fatto sta che Roberto non governò mai veramente la Sicilia, ponendo viceversa il centro del suo potere in Puglia. Fu Ruggero, invece, con il curioso appellativo ufficioso di “Gran Conte”, a governare la Sicilia e a ricostruirne lo Stato, sotto il nome di Gran Contea di Sicilia.
La Gran Contea di Sicilia
Dopo oltre due secoli di governo islamico, l’impresa politica di Ruggero appare ancora più grande della sua conquista militare. Intanto va sottolineato che la situazione etno-religiosa della Sicilia, al momento della nascita della Gran Contea nel 1071, era estremamente complicata. L’ingresso dell’islam nella vicenda storica dell’isola aveva, infatti, contribuito ad apportare un elemento di divisione tra gli abitanti della Sicilia. Quando Ruggero I consolidò il proprio potere nell’isola, essa era divisa tra musulmani e cristiani “indigeni” di confessione greco-ortodossa. Ad essi si aggiungeva una discreta presenza ebraica (linguisticamente araba). A questo quadro già di per sé complesso si sommarono gli “immigrati” latino-cattolici arrivati al seguito di Ruggero: normanni, bretoni e francesi di altra provenienza, lombardi, piemontesi ed italiani del sud. Dinanzi a questo complesso mosaico, Ruggero I dimostrò la sua grande abilità politica, garantendo a ciascuna comunità la possibilità di amministrare sé stessa attraverso il ricorso alle diverse consuetudini giuridiche, evitando una uniformazione tanto brusca da mettere a repentaglio l’esistenza stessa della Contea. Nel corso dei decenni successivi, lentamente, la semplificazione di questo complesso mosaico – passata anche attraverso la graduale scomparsa della presenza musulmana dall’isola e la latinizzazione religiosa – avrebbe condotto a quell’amalgama che chiamiamo popolo siciliano.
Sul piano ecclesiastico Ruggero I, anche in virtù del merito acquisito strappando la Sicilia ai musulmani, godette di poteri eccezionali, negati agli altri sovrani cattolici d’Europa. Dovendo ricostruire sostanzialmente dal nulla l’organizzazione della Chiesa siciliana, andata in frantumi nei secoli di dominio musulmano, a Ruggero fu conferito il potere di creare diocesi e nominare vescovi. Un potere, questo, di eccezionale rilevanza, che fu confermato dall’Apostolica Legazia concessa da Papa Urbano II nel 1098. È importante notare come questo privilegio, che garantiva alla Chiesa siciliana una particolare autonomia giurisdizionale da Roma – e su cui nel corso dei secoli vi furono accesi contrasti tra la corona di Sicilia e la Santa Sede – fu abolito soltanto nel 1871, con la legge delle guarentigie emanata dal Regno d’Italia sabaudo. È altresì importante sottolineare che il privilegio dell’Apostolica Legazia, unito all’influenza culturale della tradizione bizantina, favorì la nascita di una impostazione del potere regio che riecheggiava il cesaropapismo degli imperatori d’Oriente, come si evince dall’iconografia stessa della dinastia degli Altavilla (pensiamo ai mosaici che a Palermo e Monreale raffigurano Ruggero II e Guglielmo II incoronati direttamente da Cristo). Anche questa è un’eredità di Ruggero I.
In relazione a Ruggero I abbiamo anche notizia di un’adunanza tenuta a Mazara nel 1097, che possiamo interpretare come un’anticipazione, seppur ancora embrionale ed incompleta, del Parlamento siciliano fondato dal figlio Ruggero II nel 1130. Su Ruggero I resta da dire un’ultima cosa: grazie alle sue capacità militari ed alla sua eccezionale abilità politica e diplomatica, egli riuscì ad estendere la propria autorità non solo sulla Sicilia, ma anche sull’intera Calabria, approfittando della debolezza del duca di Puglia e Calabria, suo nipote. In tal modo, Ruggero I lasciò in eredità al figlio non solo la Contea di Sicilia, ma anche i possedimenti calabresi.
Negli anni successivi Ruggero II, una volta succeduto al padre defunto, sarebbe riuscito – più con la diplomazia che con la forza – ad assicurarsi il dominio dell’intero Ducato di Puglia e del Principato di Capua. In sostanza, alla vigilia della fondazione del regno, il futuro re di Sicilia controllava da Palermo buona parte dell’Italia meridionale.
Il Regno degli Altavilla
Tornando alle comparazioni, ve n’è una di particolare interesse per illustrare il passaggio della Sicilia da contea a regno. Negli stessi anni in cui Ruggero I era già capo della Contea di Sicilia, in Portogallo il “francese” Enrico di Borgogna diventava conte del Portogallo. Il figlio di quest’ultimo, Alfonso, nato in Portogallo, succedette al padre con il titolo di conte, salvo poi essere acclamato re nel 1139. In Sicilia accadde la stessa cosa: Ruggero II, figlio del franco- normanno Ruggero I, nacque nei possedimenti calabresi del padre e crebbe nella nostra isola; dopo aver ereditato il titolo di conte, fu incoronato re di Sicilia nel 1130. Due situazioni sostanzialmente identiche. Eppure c’è una differenza: nei libri non si parla di “dominazione borgognona” del Portogallo; viceversa sentiamo spesso parlare di “dominazione normanna” della Sicilia. Un doppio standard curioso. In realtà in Sicilia non vi fu alcuna “dominazione normanna”: i sovrani della dinastia Altavilla nacquero e crebbero tutti o in Sicilia (è il caso dei due Guglielmi e di Costanza I, nati a Palermo) o nei possedimenti italiani da essa controllati (è il caso di Ruggero II e Tancredi, nati a Mileto e Lecce); questi sovrani non conoscevano altra patria oltre il Regno di Sicilia; non si recarono mai in Normandia; non avevano nessun legame di dipendenza dal Ducato di Normandia; il loro stile di vita era molto più “mediterraneo” che “nordico”; e quando gli oppositori di Ruggero II, come testimonia – tra le altre – la cronaca del tedesco Ottone di Frisinga, attaccavano il re di Sicilia, lo chiamavano “tiranno siciliano”: un’analogia con gli antichi “tiranni” di Siracusa (3). Gli Altavilla, in sintesi, erano i primi cittadini di Sicilia, non dei dominatori stranieri.
Dunque Ruggero II, ormai signore della Sicilia e dell’Italia meridionale, al fine di rafforzare la propria posizione e di trovare un titolo confacente alla potenza politica che stava costruendo, decise che era necessario elevare la Sicilia a regno. A tal fine venne convocata un’assemblea a Salerno nel 1129 e poi, finalmente, nel 1130 a Palermo vide la luce il primo vero Parlamento siciliano (forse il primo vero Parlamento europeo). Per la prima volta, infatti, ai rappresentanti baronali e a quelli ecclesiastici, si aggiunsero quelli delle città. Un passaggio “epocale”, che da quel momento avrebbe segnato la successiva evoluzione parlamentare della Sicilia. In questo Parlamento fu decisa, per acclamazione, l’incoronazione di Ruggero II, che di fatti avvenne il giorno di Natale del 1130, presso la cattedrale di Palermo, da quel momento luogo deputato all’incoronazione dei successivi monarchi siciliani fino al 1398, anno dell’incoronazione di Martino il Giovane, marito della regina Maria. Ciò che ci interessa notare è il titolo di Ruggero II, incoronato “re di Sicilia, duca di Puglia e principe di Capua”. Come si denota, il titolo di regno spettava solo alla Sicilia (o meglio a una “Grande Sicilia” comprendente anche la Calabria che Ruggero II aveva ereditato dal padre). Il Ducato di Puglia (una Puglia molto più grande di quella attuale) ed il Principato di Capua erano invece delle dipendenze del re di Sicilia. Per fare una comparazione, si trattava di una condizione simile a quella dei re d’Inghilterra: se prendiamo, per esempio, la lista dei titoli di Riccardo Cuor di Leone, troviamo che egli era re d’Inghilterra, duca di Normandia, duca d’Aquitania, conte del Maine, d’Angiò, ecc…
Ci si potrebbe chiedere se il fare della Sicilia (e non, per esempio, della Puglia) un regno sia stato un mero capriccio di Ruggero II oppure no. Ebbene, non fu affatto un capriccio. L’elevazione della Contea di Sicilia a regno fu esplicitamente motivata come una restaurazione dell’antico status dell’isola (4). Il ragionamento era il seguente: siccome in antichità era esistito un Regno siceliota (quello di Agatocle e dei successori) e siccome la Sicilia romana era una provincia a sé, in termini moderni una nazione, allora lo status naturale dell’isola era quello di regno. In tal senso Ruggero II non dovrebbe essere definito “fondatore” del Regno di Sicilia, ma “ri-fondatore”, “restauratore” dello stesso. E infatti non è un caso se le uniche regioni dell’odierna Repubblica Italiana ad avere avuto il titolo di “regno” siano state la Sicilia e la Sardegna, che in epoca romana erano province a sé. Poi a queste due si sarebbe aggiunto il cosiddetto “Regno di Napoli”, ma – come vedremo in seguito – il “Regno di Napoli” era tale solo in virtù della corona siciliana. Pochi anni dopo l’incoronazione, nel 1135, Ruggero II aggiunse ai suoi titoli di re di Sicilia, duca di Puglia e principe di Capua, anche quello di re d’Africa. Ciò avvenne quando le armate siciliane, guidate dal grande ammiraglio Giorgio d’Antiochia, inizarono la conquista di alcuni territori che in epoca romana costituivano la provincia d’Africa (l’odierna Tunisia più parti dell’Algeria e della Libia). Anche qui valse il medesimo principio: provincia romana = regno. Negli anni successivi, Ruggero II completò la conquista dell’Italia meridionale prendendo il controllo del Ducato di Napoli e dell’Abruzzo. In più, sempre grazie al suo ammiraglio Giorgio, riuscì a conquistare alcuni territori costieri della penisola balcanica. In pratica, nel giro di pochi anni, vide la luce una sorta di impero siciliano al centro del Mediterraneo. Il peso politico, la prosperità economica e la sofisticata cultura di corte, fecero del regno ruggeriano una delle principali potenze europee, capace di tenere testa ai due imperi d’Occidente e d’Oriente. Tale situazione, se si fa eccezione per la perdita dei domini africani nel 1161, continuò nei decenni successivi alla morte di Ruggero II. Sotto i due Guglielmi, infatti, la Sicilia continuò questo suo magnifico apogeo storico, dando in più occasioni dimostrazione del suo peso diplomatico, militare, culturale ed artistico. Fu l’epoca della grande architettura siculo-normanna; delle audaci spedizioni militari della flotta siciliana in Oriente, dall’Impero bizantino alla Terra Santa; della Pace di Venezia, che vide la Sicilia firmare il trattato con Federico Barbarossa e Papa Alessandro III anche a nome della piccola Lega Lombarda, sua alleata; di un re di Sicilia che sposa la figlia del re d’Inghilterra, sorella di Riccardo Cuor di Leone.
La stabilità della dinastia siculo-normanna fu però scossa da due eventi: 1) il matrimonio nel 1186 tra la figlia di Ruggero II, Costanza, ed Enrico VI di Svevia, figlio del Barbarossa ed erede del Sacro Romano Impero; 2) la morte senza figli di Guglielmo II nel 1189. Questi due eventi aprirono una crisi dinastica, perché la corona sarebbe dovuta spettare proprio a Costanza e, quindi, al marito Enrico VI. Tuttavia, il Parlamento siciliano elesse come re di Sicilia Tancredi, nipote, seppur illegittimo, di Ruggero II. In quest’atto del Parlamento possiamo ravvisare una sorta di “proto-nazionalismo” siciliano. Infatti, alla corte di Guglielmo II, in relazione al problema dei rapporti tra il Regno di Sicilia ed il Sacro Romano Impero, si erano sviluppati due “partiti”: quello capeggiato dall’arcivescovo di Palermo Gualtiero, favorevole ad un’alleanza, suggellata dal matrimonio tra Enrico e Costanza, tra la Sicilia e l’Impero; e quello capeggiato dall’uomo di Stato Matteo d’Aiello, il quale temeva che un’ipotetica calata dei barbari tedeschi in Sicilia avrebbe distrutto quello straordinario edificio politico-culturale che era il Regno di Sicilia. La scelta del Parlamento in favore di Tancredi andava nella direzione del “partito” di Matteo (5).
Tancredi riuscì a difendere con tenacia la libertà del regno, ma la sua morte, nel 1194, espose la Sicilia ad un momento di debolezza politica, culminato con la discesa di Enrico VI di Svevia, che sul finire del 1194 spodestò il piccolo Guglielmo III, figlio di Tancredi di soli 9 anni, e venne incoronato re di Sicilia in forza del suo matrimonio con Costanza. L’approdo di Enrico VI fu un passaggio molto brusco e traumatico per il regno; sembrò veramente che la Sicilia stesse per sprofondare in un periodo di decadenza, sottomissione e brutalità. Tuttavia il feroce Enrico VI morì appena tre anni dopo, nel 1197, forse addirittura avvelenato dalla stessa Costanza. Costei, che nel dicembre del 1194 aveva dato alla luce Federico II, si mise alla testa della fazione “nazionale” ostile ai tedeschi e alcuni di essi furono cacciati dalla corte. La morte di Costanza nel 1198 diede inizio a una nuova fase della storia del Regno di Sicilia. Una fase caratterizzata da elementi sia di continuità che di rottura rispetto all’età degli Altavilla.
L’età federiciana
Federico II, divenuto re di Sicilia a soli 4 anni, è uno dei personaggi in assoluto più discussi della storia siciliana. Spesso lo si sente apostrofare come lo “svevo” o il “tedesco”. In realtà Federico, intanto, non nacque in Germania, ma in Italia, nelle Marche, mentre sua madre (siciliana) era in viaggio verso la Sicilia; crebbe e si formò a Palermo; parlava e poetava nel siciliano aulico che lui stesso promosse con la Scuola Poetica Siciliana; fece del Regno di Sicilia il centro politico di tutti i suoi domini, comprendenti il Sacro Romano Impero, il Regno di Gerusalemme ed altri territori, tra cui la Sardegna. Lo storico William Harvey Maehl, esperto di storia tedesca, nel 1979 scrisse un libro intitolato “Germany in Western Civilization”. Ad un certo punto del libro si trova il seguente passaggio: «alla fine della sua vita Federico II rimaneva sopra ogni cosa un sovrano siciliano, e la sua intera politica imperiale era finalizzata ad espandere il Regno Siciliano in Italia piuttosto che il Regno Germanico verso Sud» (6). Un concetto simile è stato esposto di recente persino dallo storico italiano Alessandro Barbero, che ha affermato che l’appropriazione di Federico da parte della storiografia tedesca costituisce un sostanziale errore, poiché lo Stupor Mundi era molto più siciliano che germanico. Del resto, se oggi di Federico II si celebrano i tanti interessi culturali, le innovative intuizioni politiche e giuridiche e tanti altri talenti, forse ciò è dovuto soprattutto alla sua formazione umana e intellettuale siciliana che, se fosse stato tedesco, cresciuto in Germania, non avrebbe avuto. Federico II, in sintesi, fu un re siciliano e non vi fu alcuna “dominazione sveva”, essendo lui erede diretto della legittima famiglia reale siciliana. Federico II può essere considerato siciliano come Carlo V è considerato spagnolo pur essendo nato in Belgio e avendo un padre di famiglia austriaca; come Caterina II è considerata russa pur essendo nata nell’odierna Polonia da una famiglia tedesca. Se vale per loro perché non può valere per Federico II?
Sul piano politico ed istituzionale, con Federico II il Regno di Sicilia conobbe alcuni significativi cambiamenti. Intanto, il ruolo del Parlamento si rafforzò ulteriormente, arricchendosi di una più stabile partecipazione dei rappresentanti dei comuni e assumendo una più evidente funzione legislativa, di cui le famose “Costituzioni di Melfi” del 1231 furono la massima espressione, considerate da alcuni storici «il certificato di nascita dello Stato amministrativo moderno» (7). Un’altra innovazione è data dal fatto che Federico II, a differenza dei suoi antenati siculo-normanni, tentò di centralizzare dal punto di vista legislativo e amministrativo il Regno di Sicilia propriamente detto e i domini italiani (Ducato di Puglia, Principato di Capua, ecc). Il suo fu, se così possiamo dire, il tentativo di “sicilianizzare” completamente l’Italia meridionale. Questa intenzione, unita alla necessità di dover badare non soltanto al Regno di Sicilia, ma anche al Sacro Romano Impero, finì per spostare il baricentro del regno da Palermo alla Puglia (Foggia soprattutto), posta per così dire a metà strada tra l’isola di Sicilia e l’impero. Ma il più importante cambiamento vissuto dal Regno di Sicilia durante l’età federiciana fu il radicale peggioramento dei rapporti tra lo Stato siciliano ed il Papato. Contrasti (poi risolti) non erano mancati neanche all’epoca di Ruggero II, ma con Federico si raggiunse l’apice dell’ostilità, creando una situazione che avrebbe finito per arrecare molto danno ai suoi eredi ed al Regno di Sicilia.
Alla morte di Federico la corona passò al figlio Corrado e alla morte di quest’ultimo – in un clima di grande confusione – a Manfredi, figlio naturale dello stesso Federico. Tra gli Hohenstaufen ed il Papato era però ormai guerra aperta e così, nel 1265, Carlo d’Angiò – sostanzialmente in maniera illegittima – venne investito re di Sicilia direttamente dal Papa a Roma. Per qualche mese, quindi, vi furono due re di Sicilia: Manfredi, figlio di Federico II, riconosciuto dal Parlamento siciliano ed incoronato a Palermo come i suoi antenati e predecessori; e Carlo, investito dal Papa a Roma. Ad avere la meglio fu Carlo, che a Benevento nel febbraio 1266 sconfisse Manfredi (morto combattendo). Iniziava così la “mala signoria” angioina.
L’età del Vespro
Oppressi dal malgoverno angioino, umiliati dal trasferimento della corte a Napoli e non dimentichi dell’usurpazione del trono reale, i siciliani – dopo 16 anni di sottomissione – si ribellarono e diedero sfogo alla loro collera con il Vespro, scoppiato a Palermo il 30-31 marzo 1282. Con il Vespro, rivoluzione nazionale che segnala l’approdo a piena maturazione di un’identità siciliana formatasi a partire dall’epopea di Ruggero I, la Sicilia si liberò dalla mala signoria angioina, inaugurando una nuova fase della sua storia e di quella dell’Italia meridionale. Il risultato finale del Vespro, infatti, si sostanziò nella separazione del Regno di Sicilia insulare da un’entità politica inedita, che nei secoli seguenti diverrà nota con il nome di “Regno di Napoli”. In realtà questo Stato, pur non esercitando alcuna sovranità sulla nostra isola, continuò sempre a chiamarsi ufficialmente “Regno di Sicilia”. Da questa complessa vicenda, molti secoli dopo, nascerà l’equivoco delle “Due Sicilie”, ma possiamo già adesso dire che fino al 1816 questi due Stati conserveranno la propria soggettività giuridica e le proprie distinte caratteristiche (8).
Tornando al Vespro, pochi giorni dopo la ribellione di Palermo, il Parlamento proclamò la formazione della cosiddetta “Communitas Siciliae”, un romantico ma velleitario tentativo di stampo repubblicano e confederale. Qualche mese dopo, però, un nuovo Parlamento riunito a Messina restaurò la monarchia, invitando Pietro III d’Aragona a prendere la corona di Sicilia. Questa decisione non era assolutamente casuale o immotivata, ma al contrario era ispirata ad un criterio di legittimità e, per certi versi, di identità. Pietro III, infatti, fu proclamato re in quanto marito di Costanza di Sicilia, figlia del defunto re Manfredi e, quindi, nipote di Federico II e discendente dei fondatori del Regno di Sicilia. Facendo ciò il Parlamento siciliano agì in maniera non dissimile da quanto farà il Parlamento inglese molti secoli dopo, nel 1714, chiamando al trono britannico il tedesco Giorgio I di Hannover, discendente diretto di Elisabetta Stuart.
Re Pietro, rispettoso dell’indipendenza siciliana, sancì che alla sua morte i regni d’Aragona e Sicilia, da lui governati in unione personale (ossia la situazione nella quale due o più Stati condividono lo stesso re), dovessero tornare ad avere ciascuno il proprio sovrano. E fu così che alla morte di Pietro nel 1285, sul trono d’Aragona andò il primogenito Alfonso, mentre su quello di Sicilia il secondogenito Giacomo. Il Parlamento del 1286 che acclamò Giacomo segnò un altro passaggio importante nell’evoluzione parlamentare della Sicilia, in quanto le prerogative fiscali e legislative del Parlamento vennero ulteriormente rafforzate. È a partire da quella riunione che cominciò la collezione degli statuti dei Parlamenti siciliani, meglio noti come “capitoli del regno” (9). Ciononostante la memoria di re Giacomo fu rovinata da quanto accaduto negli anni successivi. Nel 1291, infatti, con la morte del fratello Alfonso, re d’Aragona, Giacomo gli succedette. Tuttavia, non rispettando la volontà testamentaria di Pietro III, il quale aveva stabilito la separazione delle due corone di Aragona e Sicilia, Giacomo mantenne i titoli sia di re d’Aragona che di re di Sicilia, stabilendosi a Barcellona e lasciando come suo vicario in Sicilia il fratello minore Federico. Qualche anno dopo, nel 1295, giunto ad un accordo con gli angioini, suggellato dal Trattato di Anagni, Giacomo cedette la sovranità dell’isola al successore di Carlo d’Angiò.
I siciliani non accettarono questo tradimento e con atto di grande coraggio e sovranità, in un Parlamento riunito a Catania a inizio 1296, elessero come proprio re Federico III, che – come detto prima – aveva fino a quel momento assolto la funzione di vicario del fratello. Con l’elezione di Federico III, re patriota per eccellenza, si aprì una stagione di eroica resistenza nazionale, splendidamente evocata dalle seguenti parole dello storico e patriota siciliano Nicolò Palmieri: «i siciliani giurarono allora di sostenere a fronte della maggior parte d’Europa la loro indipendenza; né il giuramento fu fatto invano. Si vide allora la Francia, l’Aragona, Provenza, Napoli, tutte le città guelfe d’Italia e, quel che più valeva in quell’età, Roma coi fulmini suoi, piombare addosso all’infelice Sicilia; ed i siciliani senza altro aiuto che il loro coraggio ed un eroe di venticinque anni chiamato al trono dal pubblico voto, affrontare impavidi la tempesta, sostener lungh’ora l’impari lizza, ed uscir finalmente vittoriosi dal conflitto. Essi vinsero spesso e spesso furono vinti; ma dopo le sconfitte tornavano più fieri all’attacco» (10). Il Parlamento di Catania che elesse Federico III, con le ampie concessioni da lui riconosciute, sancì un assetto istituzionale che dava alla monarchia siciliana un carattere assai temperato, che potremmo definire proto-costituzionale. Anche in questo la Sicilia precedette gran parte d’Europa.
Nel 1302 la Pace di Caltabellotta sembrò segnare un punto a favore degli angioini, stabilendo che lo Stato angioino con capitale a Napoli fosse l’unico titolato a chiamarsi “Regno di Sicilia”, mentre il regno isolano accettava la condizione di Stato subalterno e pro-tempore (fino alla morte di Federico III) con il titolo riduttivo di Regno di Trinacria. Di fatto però la Pace di Caltabellotta e le successive azioni di Federico III sancirono la definitiva separazione delle due entità statali. Poco dopo la firma del Trattato, infatti, Federico tornò a definirsi re di Sicilia e non di Trinacria e, nel 1321, associò al trono il figlio Pietro, ricusando la condizione in virtù della quale alla sua morte il regno si sarebbe dovuto estinguere e confluire nei domini angioino-napoletani. Nel frattempo la Sicilia, pienamente indipendente sia in politica interna che estera, riuscì anche a conquistare la sovranità sui due ducati greci di Atene e Neopatria. Le trattative e i conflitti diplomatici tra Sicilia e Napoli andarono avanti fino al 1372, quando di diritto fu riconosciuta la definitiva separazione di fatto tra l’antico regno isolano e il nuovo regno napoletano. Nei secoli a seguire, i due regni, formalmente chiamati entrambi “Regno di Sicilia”, sarebbero stati distinti in “citra pharum” (Napoli) e “ultra pharum” (isola di Sicilia) in riferimento al faro di Messina.
In definitiva, il periodo di Federico III e dei suoi discendenti (tutti nati e cresciuti in Sicilia) fu per l’isola un’epoca molto importante sotto il profilo politico, ma anche sotto quello identitario. Non mancarono certamente i problemi, come dimostra il clima di guerra civile che contrappose, soprattutto dal regno di Pietro II in poi, la fazione nobiliare dei “latini” capeggiati dalla famiglia Chiaramonte a quella dei cosiddetti “catalani” fedeli alla famiglia reale: una contrapposizione non dissimile a quelle sviluppatesi nel basso medioevo in altri paesi europei, pensiamo per esempio alla “guerra delle due rose” in Inghilterra. Ma nonostante tutte le difficoltà quest’epoca segnala un’identità siciliana giunta a piena maturazione, addirittura in campo linguistico, con il siciliano che da mera lingua poetica, quale era stata al tempo di Federico II, diventa finalmente lingua di prosa, usata per i documenti ufficiali del regno. Ci segnala anche quanto profondo fosse il senso di continuità ereditaria che legava i re siculo-aragonesi all’età normanno-sveva. Lo notiamo non solo da un’evoluzione giuridica che portò a piena maturazione, tra le altre cose, il Parlamento fondato da Ruggero II, ma anche dai gesti simbolici: i re siculo-aragonesi, per ragioni strategiche e politiche, spostarono la loro residenza abituale nella Sicilia orientale, prevalentemente a Catania, ma continuarono a farsi incoronare nella cattedrale di Palermo, la stessa nella quale tutti i re di Sicilia, ad eccezione di Corrado I e dell’usurpatore Carlo d’Angiò, avevano ricevuto l’unzione ed il sacro mandato di guidare lo Stato siciliano. Lo notiamo persino dai nomi che Federico III diede ad alcuni dei suoi figli, Ruggero, Guglielmo, Manfredi, Costanza: nomi che abbiamo già ampiamente incontrato. Purtroppo, però, con la morte della regina Maria nel 1401, del di lei figlio Pietro l’anno precedente e del marito Martino il Giovane nel 1409, alla Sicilia accadde una grande sciagura storica, ossia la perdita di un sovrano e di una corte residenti nell’isola, cose che essa aveva avuto dal lontano 1071. Si avviava così il lungo periodo delle unioni personali e dei viceré.
Dal vicereame aragonese a quello asburgico
Martino il Giovane morì senza lasciare figli legittimi. Il trono siciliano passò, quindi, direttamente al padre di costui, Martino il Vecchio, re d’Aragona, figlio di una principessa siciliana. Alla morte di Martino il Vecchio nel 1410 si aprì un momento di confusione al termine del quale, nel 1412, il castigliano Ferdinando I divenne sovrano della corona d’Aragona. Si arrivò a questa decisione attraverso il cosiddetto Compromesso di Caspe, nel corso del quale i rappresentanti dell’Aragona, di Valencia e della Catalogna stabilirono a chi dovesse spettare la successione dinastica. Purtroppo a Caspe, malgrado l’assenza di rappresentanti siciliani, venne deciso il destino della Sicilia stessa, poiché Ferdinando I, una volta incoronato re della corona d’Aragona, decretò l’unione personale del Regno di Sicilia a quest’ultima, facendo di fatto e di diritto venir meno la possibilità che la Sicilia avesse un proprio re non condiviso con altri Stati. Risultarono quindi vani i tentativi di una parte della nobiltà siciliana, probabilmente quella più patriottica e lungimirante, tesi ad individuare l’erede al trono di Sicilia in Federico de Luna, figlio naturale di Martino I e di una donna siciliana. Naufragò anche il tentativo di eleggere re di Sicilia il figlio di Ferdinando I, Giovanni. Tuttavia, questi tentativi, seppur naufragati, dimostrano che era presente tra i siciliani la consapevolezza dell’importanza di continuare ad avere un re proprio al fine di preservare l’indipendenza del regno. Purtroppo andarono male e nel 1416, con l’ascesa al trono di Alfonso il Magnanimo, entrò a pieno regime l’età dei viceré di Sicilia. Con Alfonso il Magnanimo, inoltre, fece capolino per la prima volta la dicitura “Due Sicilie”, ma con questa dicitura, fino al 1816, non si intenderà mai indicare un inesistente “Regno delle Due Sicilie” con capitale a Napoli, ma sempre i due distinti regni di Sicilia citra pharum e ultra pharum, per sedici anni in unione personale sotto lo stesso Alfonso fino alla sua morte, allorquando a Napoli ascese al trono il figlio naturale Ferrante I e in Sicilia il fratello Giovanni, re d’Aragona (11).
Fu proprio Giovanni, nel 1460, a sancire l’unione perpetua del Regno di Sicilia alla corona d’Aragona. In sostanza la Sicilia, tramite l’unione perpetua stabilita da re Giovanni, perse la possibilità di avere una propria politica estera, ma vide paradossalmente rafforzata la propria autonomia interna, continuando ad essere uno regno con un suo Parlamento, una sua moneta, una sua flotta, un suo esercito e tutto ciò che contraddistingue uno Stato. Tale rafforzamento è testimoniato dall’introduzione del principio in base al quale tutte le imposte dovessero restare in Sicilia, dal conferimento di tutti gli uffici statali ai soli “regnicoli” e dal potere del Parlamento nei confronti dei viceré, che nel loro mandato potevano agire senza il parere dei sovrani iberici.
Quindi, dal 1416 al 1713, il Regno di Sicilia rimase in unione con le monarchie composite dell’Aragona prima e della Spagna poi, venendo governato dai viceré residenti a Palermo, rappresentanti del sovrano nell’isola. Nel corso di questi secoli non mancarono i casi di aperte rivolte, anche a carattere repubblicano, e di congiure, come quella che nel 1645 avrebbe dovuto portare sul trono di Sicilia il principe di Paternò Luigi Guglielmo Moncada. Ad ogni modo, in questa lunga epoca di vicereame iberico il Parlamento siciliano, sebbene non convocato con la stessa frequenza del passato, continuò a funzionare (12). Non fu soppressa la prerogativa del Parlamento di proporre leggi, né si fece mai alcuna legge abrogativa dei capitoli del regno. Anzi questi ultimi furono confermati da tutti i re all’atto del loro insediamento. Addirittura l’imperatore Carlo V, entrando a Palermo nel settembre 1535, si recò in cattedrale a confermare di persona il giuramento con il quale si impegnava a rispettarli (13). E un apposito organo eletto dal Parlamento, la Deputazione, aveva lo scopo di vigilare sul rispetto delle prerogative del regno.
L’assenza di un re residente ebbe certamente conseguenze negative, sia a livello politico che economico-sociale che da altri punti di vista (si pensi al regredire del siciliano dal rango di lingua ufficiale), ma episodi come la straordinaria ricostruzione del Val di Noto dopo il terremoto del 1693 dimostrano che uno Stato in Sicilia esisteva e sapeva, all’occorrenza, essere efficiente. Si può parlare di “dominazione spagnola”? In realtà sarebbe meglio definirla “egemonia”, come accade in qualsiasi unione personale, nella quale lo Stato in cui risiede il re finisce per essere quello che esercita un’egemonia. La condizione della Sicilia “spagnola”, però, non è dissimile da quella che altre nazioni europee hanno sperimentato nel corso della loro storia: per esempio, pensiamo all’Ungheria, che per secoli è stata in unione personale con l’Impero asburgico, o alla Norvegia, unita alla Danimarca addirittura dal 1387 al 1814.
I siciliani, però, non smisero di ambire ad avere un re residente nell’isola, come era stato nel medioevo. E il Trattato di Utrecht del 1713, con il quale la Spagna – pur continuando a detenere alcuni teorici diritti di alta sovranità sul regno – cedeva la Sicilia al duca Vittorio Amedeo di Savoia, sembrò alimentare questa speranza, senonché Vittorio Amedeo – dopo essere stato incoronato solennemente nella cattedrale di Palermo insieme alla moglie e aver soggiornato nell’isola fino al 1714 – se ne tornò a Torino lasciando in Sicilia un viceré (14). È curioso, ma per avere una corona reale fino a quel momento mai posseduta i Savoia dovettero venire in Sicilia. Pochi anni dopo, con il Trattato dell’Aia del 1720, il Regno di Sicilia passò agli Asburgo, mentre Vittorio Amedeo divenne re di Sardegna. Anche gli Asburgo affidarono il governo a dei viceré.
L’età borbonica
Nel 1734 l’erede al trono di Spagna Carlo di Borbone (di madre italiana) strappò i regni di Napoli e Sicilia agli Asburgo, ma al contrario che in passato i due regni non tornarono sotto sovranità spagnola (anzi fu proprio in questo frangente che fu definitivamente revocato qualsiasi riferimento all’unione perpetua del 1460). Carlo, infatti, fu il capostipite di un nuovo ramo indipendente della dinastia borbonica; un ramo per così dire “duosiciliano”. Nel luglio 1735, infatti, Carlo fu incoronato nella cattedrale di Palermo con il titolo di “rex utriusque Siciliae”, che potrebbe essere tradotto come “re delle Due Sicilie”, ma che in realtà indicava soltanto il fatto che Carlo era il re dei due regni di Napoli e Sicilia (15). Questi rimanevano due Stati separati con istituzioni, leggi e consuetudini diverse. Solo per fare qualche esempio, in qualità di re di Napoli Carlo doveva al Papa il cosiddetto “tributo della chinea”, istituito in epoca angioina, in quanto il pontefice era considerato detentore dei diritti feudali sull’Italia meridionale. In qualità di re di Sicilia, invece, ne era esentato; altro esempio: in qualità di re di Sicilia, nella sola isola, Carlo godeva dei diritti ecclesiastici garantiti dall’Apostolica Legazia, cosa di cui non godeva a Napoli. Inoltre la natura dei due regni era diversa per la presenza in Sicilia di una tradizione parlamentare assente a Napoli. In sostanza i due regni condividevano il re, ma restavano entità diverse e separate, tanto che gli ambasciatori “borbonici” in Europa rappresentavano due distinte corone (furono addirittura istituite due distinte compagnie di commercio internazionale, una con sede a Napoli e l’altra con sede a Messina): una situazione per molti versi identica a quella dei regni d’Inghilterra e Scozia al tempo degli Stuart. L’incoronazione di Carlo a Palermo alimentò nuovamente la speranza di avere un re stabilmente residente in Sicilia con una sua corte. Purtroppo, ancora una volta, la speranza fu mal riposta e Carlo fissò la sua residenza principale a Napoli, affidando la Sicilia a un viceré. Ad ogni modo, quando nel 1759 il figlio di Carlo, il piccolo Ferdinando, ascese al trono, a testimonianza della distinzione esistente tra i due regni, prese la numerazione di Ferdinando III di Sicilia e IV di Napoli.
Con Ferdinando la situazione sembrò non cambiare, ma alla fine del secolo gli eventi sviluppatisi in Italia sulla scia della rivoluzione francese diedero alla Sicilia una nuova illusione. Nel 1798, infatti, le armate francesi di Napoleone conquistarono Napoli e Ferdinando decise di lasciare la città partenopea e rifugiarsi in Sicilia. Il re fu accolto con entusiasmo a Palermo, alimentando la mai sopita speranza dei siciliani di tornare ad avere un sovrano stabilmente residente nell’isola. E così nel 1802 si riunì il Parlamento e, sperando di convincere Ferdinando a rimanere in Sicilia, fu approvato un cospicuo donativo annuale per il mantenimento della corte a Palermo. Il re accettò il responso parlamentare, promise di adempiere alla promessa, ma poco dopo se ne tornò a Napoli, ormai liberata dalla presenza francese. Nel 1806 una nuova invasione francese costrinse Ferdinando a lasciare Napoli e rifugiarsi ancora una volta in Sicilia, protetto dagli inglesi. Questa volta il re fu accolto con freddezza e nel 1810 convocò il Parlamento al fine di ottenere un cospicuo donativo per difendere l’isola dai francesi. Tra la classe dirigente siciliana e Ferdinando si aprì un braccio di ferro, mediato da Bentinck, comandante delle truppe britanniche in Sicilia (Gran Bretagna e Sicilia erano alleate contro Napoleone). Fu proprio tramite la mediazione di Bentinck che si arrivò all’approvazione della Costituzione siciliana del 1812, che modificò la struttura del Parlamento in senso “bicamerale”, comportò l’abolizione dei diritti feudali e, soprattutto, ribadì il principio dell’indipendenza del Regno di Sicilia, rafforzandolo con delle misure ad hoc, tra cui meritano di essere menzionate le seguenti: «In mancanza di legittimi eredi e successori, la nazione avrà il diritto di scegliere il suo re, il quale dovrà regnare con quelle condizioni, che saranno prescritte dalla medesima; (…) Se la nazione sarà obbligata a fare la scelta del suo re fra i principi stranieri, non dovrà giammai eleggere il Sovrano di un’altra nazione; ma sempre un principe ultragenito, che non ha sovranità alcuna in altro paese; e fin dal primo giorno della sua elezione stabilir deve la sua residenza in Sicilia; (…) Se il re di Sicilia riacquisterà il regno di Napoli, o acquisterà qualunque altro regno, dovrà mandarvi a regnare il suo figlio primogenito, o lasciare detto suo figlio in Sicilia con cedergli il regno; dichiarandosi il detto regno di Sicilia indipendente da quello di Napoli, e da qualunque altro regno o provincia». Ferdinando, a denti stretti, fu costretto a promulgare questa Costituzione, ma nel 1816, tornato in possesso di Napoli in seguito al Congresso di Vienna, con un clamoroso colpo di mano soppresse il Regno di Sicilia facendolo confluire in un inedito “Regno delle Due Sicilie” che altro non era, in realtà, che il Regno di Napoli con la Sicilia ridotta a possedimento d’oltremare. Dopo 686 anni di storia, l’8 dicembre 1816, cessava quindi di esistere il Regno di Sicilia fondato da Ruggero II; il Parlamento fu chiuso e nell’isola ai viceré si sostituirono i luogotenenti. Forse è qui, nella soppressione dello Stato isolano, che possiamo rintracciare l’origine di una vera “questione siciliana”.
L’atto di Ferdinando segnò l’apertura di una guerra senza vincitori tra la Sicilia e i Borbone. In teoria l’isola conservava ancora una certa autonomia, ma in posizione subordinata agli interessi di Napoli, tanto che a livello economico alla Sicilia fu negato lo sviluppo industriale che i Borbone avevano promosso in Campania o in Calabria (16). Nel giro di pochi decenni i siciliani insorsero a più riprese per riacquistare l’indipendenza: a partire dal 1820, passando per il 1837, fino ad arrivare alla rivoluzione del 1848, con la quale, sebbene per un solo anno, il Regno di Sicilia rinacque, la dinastia borbonica fu dichiarata decaduta e una nuova costituzione fu approvata (sancendo all’art. 2 il principio per cui «la Sicilia sarà sempre Stato indipendente»). Su quella rivoluzione si è molto mistificato: essa è stata superficialmente strumentalizzata dalla propaganda risorgimentale e dileggiata da certa pubblicistica neoborbonica. In realtà, un giudizio equilibrato è possibile solo se si accetta la complessità della storia, senza pretendere di piegarla a schemi precostituiti. Oggi può apparire paradossale, ma nel 1848 in Sicilia, senza entrare in contraddizione, si poteva essere indipendentisti e al tempo stesso sventolare il tricolore, che ancora non era il simbolo di sottomissione che sarebbe divenuto in seguito: si immaginava, forse ingenuamente, una confederazione italiana di Stati indipendenti, nella quale la Sicilia avrebbe avuto nuovamente un proprio re e un proprio Parlamento (17). La storia, come sappiamo, andò diversamente e la futura unità d’Italia, anziché realizzarsi su basi confederali, diventerà il pretesto per un criminale processo di colonizzazione delle “Due Sicilie” (18). Cosa che i patrioti siciliani nel 1848 non potevano sapere. Ad ogni modo, nel 1849, la sconfitta della rivoluzione riportò la Sicilia sotto il controllo di Napoli, ma il passaggio dalla padella borbonica alla brace sabauda era sempre più vicino.
La Sicilia italiana
Il taglio storico-giuridico di questo scritto non ci consente di approfondire nel dettaglio le possibili trame occulte o gli interessi geopolitici di alcune grandi potenze come l’Inghilterra alla base dello sbarco dei “mille” e della conseguente annessione della Sicilia e del Sud Italia allo Stato sabaudo. Si tratta di temi estremamente importanti, ma che proprio per questo meritano una trattazione a sé. Qui limitiamoci a dire che il malcontento alimentato dal governo napoletano finì per favorire il successo dell’imbroglio garibaldino posto in atto nel 1860. Sul piano istituzionale, dopo lo sbarco dei mille, Garibaldi a Salemi si proclamò “dittatore di Sicilia” riportando momentaneamente in vita la costituzione del 1848 e restituendo (o meglio facendo finta di restituire) l’indipendenza all’isola. I siciliani ottennero persino la convocazione di un Parlamento che avrebbe dovuto stabilire se e in che forma la Sicilia si sarebbe dovuta unire al futuro Stato italiano. Tuttavia le pressioni provenienti dal Piemonte fecero naufragare la convocazione dell’assemblea e, invece, fu indetto lo scandaloso plebiscito-farsa che avrebbe tristemente sancito la fusione tra la Sicilia e il regno sabaudo ufficializzata il 4 dicembre 1860.
Iniziò così la vicenda della Sicilia italiana. I fatti di Bronte avevano già dato ai siciliani un assaggio della natura del nuovo governo sabaudo. Nel 1862 arrivò il primo stato d’assedio. E ne seguiranno molti altri negli anni a venire. La Sicilia adesso si trovava in una posizione ancora peggiore di quella sperimentata dopo il 1816. Fu in questo contesto di delusione, malcontento e povertà crescente che a Palermo, nel settembre 1866, scoppiò la rivolta del Sette e Mezzo, un evento che dimostrò come l’antico anelito di libertà dei siciliani non si ancora era spento. Solo una repressione brutale riuscì a porre fine a quel tentativo insurrezionale, di cui soltanto negli ultimi anni si è tornato a parlare. Nei decenni successivi altri episodi, come la lotta dei Fasci Siciliani, dimostrarono che la Sicilia, schiacciata da una condizione politica ed economica che assumeva sempre più nitidamente connotati coloniali, non si era ancora rassegnata a vivere da colonia interna (al pari del Sud Italia) utile solo come mercato di sbocco per la nascente industria settentrionale e come terra da sottoporre al più bieco sfruttamento. E quando durante la seconda guerra mondiale uomini come Antonio Canepa e Andrea Finocchiaro Aprile innalzarono il vessillo della Trinacria, dando vita al movimento indipendentista di massa più importante della storia politica italiana, non fecero altro che seguire le orme degli antenati, che per secoli avevano lottato per mantenere o riconquistare l’indipendenza. Nel 1945 quell’obiettivo, anche per via del complesso quadro geopolitico mondiale, fallì. Alla Sicilia fu garantito uno statuto speciale che in teoria avrebbe potuto fornire all’isola prerogative amplissime, capaci di innescare un concreto processo di sviluppo economico e sociale (19).
Ma la storia della Sicilia italiana è sotto gli occhi di tutti. Oltre 70 anni di falsa autonomia, quasi 160 anni di unità d’Italia, ci consegnano un bilancio che da quasi ogni punto di vista non può che sconcertare: dall’endemico sviluppo del fenomeno mafioso all’emigrazione di massa, dall’impressionante aumento del divario economico tra la Sicilia e il Nord Italia alla mortificazione dell’identità siciliana, sono tanti i motivi per cui i siciliani – popolo un tempo fiero ed orgoglioso – dovrebbero cominciare a sviluppare una sana rabbia e ricordare che per secoli hanno avuto un proprio Stato, espressione politica di una grande nazione europea.
Note
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1 TUCIDIDE, Guerra del Peloponneso, in L. ROSSETTI, U. BULTRIGHINI & M. MARI (a cura di), Storici greci: Erodoto, Tucidide, Senofonte, Newton Compton, Roma 2007, p. 947.
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2 P. SANFILIPPO, Compendio della storia di Sicilia, seconda edizione, Pedone, Palermo 1845, pp. 187-188: «La memoria dei principi normanni fu sempre ai siciliani carissima (…) Essi più da padri, che da signori, ressero la Sicilia, e al grado di nazione libera, indipendente, ricca e temuta la sollevarono».
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3 Cfr. K. HURLOCK & P. OLDFIELD (a cura di), Crusading and pilgrimage in the Norman world, The Boydell Press, Regno Unito 2015, p. 143.
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4 Si veda A. MONGITORE, Discorso istorico sull’antico titolo di regno concesso all’isola di Sicilia e suoi dritti all’indipendenza dal Regno di Napoli, seconda edizione, Palermo 1821.
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5 Cfr. S. CORRENTI, Storia di Sicilia come storia del popolo siciliano, Longanesi, Milano 1982, p. 94.
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6 W.H. MAEHL, Germany in Western Civilization, University of Alabama Press, Stati Uniti 1979, p. 64. Traduzione di chi scrive dall’originale in inglese: «To the end of his life he remained above all a Sicilian grand signore, and his whole imperial policy aimed at expanding the Sicilian kingdom into Italy rather than the German kingdom southward ».
Si è preferito tradurre “grand signore” con “sovrano” per favorire la comprensione del testo.
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7 Citazione dello storico tedesco E. Kantorowicz riportata in A. LEPAWSKY, Administration: the art and science of
organization and management, Knopf, Stati Uniti 1949, p. 58.
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8 Si veda G.M. SARRI, Dissertazione sui titoli e regni de’ quali s’inaugura il monarca siciliano, 1735, pp. 18-22.
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9 N. PALMIERI, Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia infino al 1816, Bonamici, Losanna 1847, p. 39.
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10 Ivi, p. 41.
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11 Cfr. G.M. SARRI, op. cit., p. 22.
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12 Si veda A. MONGITORE, Parlamenti generali del Regno di Sicilia dall’anno 1446 fino al 1748, Palermo 1749.
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13 Ivi, Vol. I, p. 195.
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14 Si veda A. MANGO DI CASALGERARDO, Dell’ingresso e dimora di Vittorio Amedeo II di Savoia in Palermo e della sua acclamazione
a re di Sicilia, Reber, Palermo 1899.
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15 Si veda La Reggia in trionfo per l’acclamazione e coronazione della Sacra Real Maestà di Carlo infante di Spagna, re di Sicilia,
Napoli e Gerusalemme, pubblicazione del Senato di Palermo, 1736.
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16 Si veda S. SALAFIA, Sulla industria della nazione siciliana: discorso economico-politico-filosofico, Roberti, Palermo 1839.
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17 A tal proposito si consigliano i testi pubblicati da Gioacchino Ventura nello stesso 1848:
La questione sicula nel 1848 sciolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e dell’Italia; Per lo riconoscimento della Sicilia come Stato sovrano e indipendente.
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18 Si veda N. ZITARA, L’unità d’Italia: nascita di una colonia, Jaca Book, Milano 1979.
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19 Si veda M. COSTA, Lo statuto speciale della regione siciliana. Un’autonomia tradita? Commento storico, giuridico ed
economico allo statuto speciale, Herbita, Palermo 2009.