La finanza siciliana ai tempi dell’Alta Corte

La storia della Regione, finanziariamente parlando, inizia l’1 giugno del 1947, immediatamente dopo le prime elezioni regionali e la prima elezione del Presidente della Regione.

Lo stesso giorno cessano le funzioni dell’Alto Commissario per la Regione Siciliana. Cessavano, meglio, di diritto, ma non di fatto.

La Regione infatti partiva in un totale “vuoto” di norme giuridiche, in particolare finanziarie.

Lo Stato non passò alcuna funzione, né personale, né risorsa al nuovo ente, che aveva serissime difficoltà sino a compiere le più elementari azioni amministrative.

Il primo esercizio finanziario (1946/47) durò appena un mese (il giugno del 1947) e si svolse senza alcun documento finanziario approvato, né esercizio provvisorio di sorta. Dall’1 luglio partirono regolarmente i successivi esercizi annuali (allora da luglio a giugno).

In pratica, sin dal primo giorno, iniziò il braccio di ferro tra Stato e Regione.

Fu l’abilità politica del primo Presidente ad ottenere quanto indispensabile al funzionamento minimo della Regione.

Infatti il 30 giugno di quell’anno il Capo Provvisorio dello Stato, De Nicola, mentre ancora l’Assemblea Costituente non aveva concluso i propri lavori, emanò un decreto (il n. 567) fondamentale per la vita della Regione stessa: non essendo stato passato ancora il personale dello Stato alla Regione, né data alcuna risorsa alla Regione veniva prorogato “sine die” l’ordinamento dell’Alto Commissariato, con una modifica, però, che in teoria avrebbe rappresentato una vittoria storica per la Sicilia: le funzioni dell’Alto Commissario, che era di nomina governativa, venivano sostituite in toto dal Presidente della Regione.

Per spiegare in modo semplice perché questa sarebbe stata una grande vittoria per la Sicilia dobbiamo ricordare che l’Alto Commissario era allora una specie di “Vicerè” o “Luogotenente” dello Stato in Sicilia. Da lui, con pochissime eccezioni, come la difesa o l’università, dipendeva tutta l’amministrazione statale in Sicilia, compresa l’amministrazione finanziaria e i prefetti.

Passando queste funzioni alla Regione, questa, in teoria, diventava un paese semi-indipendente.

Quel decreto, si badi, non è stato mai abrogato. Semplicemente non è stato mai applicato dallo Stato, che, destituito l’ultimo Alto Commissario, ha ripreso tranquillamente a dare ordini a tutte le branche dell’Amministrazione dello Stato ignorando semplicemente il suddetto decreto del Capo dello Stato.

È ben vero che quel decreto passava queste funzioni “in quanto applicabili” al nuovo contesto. Perché? Perché ora entrava in gioco l’Assemblea Regionale, nonché tutte quelle norme dello Statuto che, non comportando passaggio di uffici e personale da parte dello Stato, sarebbero state anch’esse di immediata attuazione. L’espressione “in quanto applicabili” era evidentemente riferita al fatto che questo passaggio di funzioni doveva avvenire nel nuovo quadro dell’Autonomia applicata.

Come andarono a finire le cose in pratica?

All’inizio si restò nell’ambiguità. Si “disse” che gli organi statali, compresi quelli finanziari, avevano una sorta di “doppia lealtà”: restavano inquadrati nei Ministeri e quindi nella burocrazia statale, ma dovevano “anche” prendere ordini dal Presidente nella qualità di Alto Commissario. Interpretazione già contraria allo Statuto, perché tutta l’Amministrazione statale si sarebbe dovuta regionalizzare (tranne quella della difesa). Però questa interpretazione aveva buon gioco perché erano assenti le norme attuative che avrebbero potuto rendere effettiva questa totale separazione delle burocrazie. L’ambiguità durò fino al 1958 circa. Da quella data in poi, infatti, la Corte Costituzionale da poco entrata in funzione avrebbe compresso l’efficacia del D.L.C.P.S. 567/1947 fino praticamente a svuotarla: fin troppo facile, infatti, dire che l’espressione “in quanto applicabili”, era relativa al pre-Statuto, e quindi dopo lo Statuto, non ne restava praticamente nulla. Questa interpretazione “castrante” fece il paio con quella che volle le “norme attuative” per dare seguito allo Statuto non solo per la prima volta in cui si doveva decidere il passaggio di funzioni e personale da Stato a Regione, e quindi in maniera transitoria e solo su determinate materie, ma su tutte le materie, anche quelle ad evidenza immediatamente applicabili, e in modo permanente. In modo che lo Statuto, senza le norme attuative, restasse TUTTO inefficace. Ma questa è un’altra storia, amministrativa e non finanziaria, che attiene alla guerra sottile che l’Italia ha condotto per 70 anni contro la Sicilia.

Torniamo al 1947.

Forte di questa norma, solo il giorno dopo quel fondamentale Decreto, il 1° luglio del del 1947, l’Assemblea vota la Legge 2 del 1947 che consente alla Regione di fare il proprio bilancio, nell’attesa di avere attuato il proprio ordinamento finanziario, prendendosi in un colpo solo tutte le entrate dello Stato riscosse nella Regione, con la sola esclusione di quelle indicate nel 2° comma dell’art. 36 riservate allo Stato. Fu un vero e proprio colpo di mano della Regione contro lo Stato. Addirittura, pur facendo partire l’esercizio finanziario dall’1 giugno 1947, la legge lasciava impregiudicati i diritti della Regione a far data dall’entrata in vigore, un anno prima, dello Statuto della Regione.

Nell’attesa di potere deliberare i propri tributi la Sicilia inventava i “tributi devoluti”, devolvendosi, con propria legge, tutti (quasi tutti) i tributi erariali riscossi nell’Isola.

Dell’opera in quella legge fu delegato il Presidente della Regione, che, con proprio decreto n. 14 del successivo 5 luglio, dava vita al primo esercizio provvisorio trimestrale (in attesa che l’Assemblea approvasse i primi bilanci) sulla base di questo storico “scippo” allo Stato.

Fu un vero shock per lo Stato, al quale quest’ultimo non seppe rispondere, non avendone alcun mezzo.

Non si era costituita la Corte Costituzionale, anzi ancora non era neanche istituita perché il 27 dicembre, data di nascita della Costituzione, era ancora una data futura. Ma, allora, anche fosse stata istituita, nessuno avrebbe mai pensato che questa avrebbe potuto avere competenza sulla Regione. Era allora del tutto pacifico che i conflitti di competenza tra Stato e Regione erano di competenza di un foro speciale, l’Alta Corte per la Regione Siciliana, che De Nicola ancora non aveva voluto istituire.

Non esistendo l’Alta Corte, e non potendo invocare altre giurisdizioni, il Decreto del 30 giugno dava realmente al Presidente della Regione ruolo di Luogotenente dello Stato in Sicilia, e quindi non c’era proprio nulla da fare, se non  – forse – tentare di arrestarlo.

Ma una cosa del genere non era possibile. Lo Stato accettò la sconfitta. Alessi diede l’ordine alle intendenze di finanza (allora antenate dell’attuale Agenzia delle Entrate) di girare alla Regione tutte le entrate erariali.

Da quel momento la Regione iniziò a comportarsi, da un punto di vista fiscale, come un vero e proprio stato sovrano. Interpretò unilateralmente la “competenza di deliberare i propri tributi” concessa dall’art. 36 come una competenza esclusiva, al punto che ogni volta che lo Stato emanava una norma tributaria, l’Assemblea si affrettava a recepirla nell’ordinamento siciliano, e – talvolta – a modificarla, introducendo la fiscalità di vantaggio.

Fu un momento d’oro per i rapporti tra Stato e Regione, ma durò poco, molto poco.

Lo Stato capì che l’avere emanato a marzo solo le norme essenziali all’avvio della Regione, e – poco dopo – a maggio, quelle sul Commissario dello Stato, era stato un errore. Senza Alta Corte lo Stato era indifeso di fronte alla Regione.

Ma non tutti erano d’accordo a Roma. C’era chi voleva normalizzare lo Statuto regionale in Assemblea Costituzionale. In fondo era proprio previsione dello Statuto siciliano che questo si dovesse “coordinare” con la Costituzioine. Quale migliore occasione?

Ma le cose andavano per le lunghe.

E così, a settembre, arrivò il decreto attuativo per l’istituzione dell’Alta Corte. La Regione nominò subito i suoi tre componenti. Lo Stato, invece, meno interessato, perse un po’ di tempo. Poi i 6 magistrati insediati elessero Presidente una vera autorità, l’ex Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi. Ma questi, disprezzando questa “anomalia istituzionale” da vecchio centralista, rifiutò l’incarico. Si arrivà alla nomina di una persona meno nota, Tomaso Perassi, che si sarebbe rivelato persona davvero equilibrata, sebbene non siciliano. Insomma, tra una cosa e un’altra, l’Alta Corte avviò i propri lavori solo nel 1948.

Nel frattempo la Costituente chiudeva i propri lavori.

I tentativi di “castrare” lo Statuto in Costituente erano andati frustrati per la fiera resistenza ed ostruzionismo di alcuni deputati siciliani, in specie – naturalmente – quelli indipendentisti.

Lo Statuto fu recepito tra le altre “autonomie speciali” riconosciute dalla Repubblica e una disposizione transitoria onerava la Costituente di provvedere, entro il gennaio del 1948, di approvare i relativi Statuti, come parte integrante della Costituzione stessa, quasi sue parti speciali.

In qualche modo l’Assemblea Costituente arrivò, con un po’ di ritardo, ad ottemperare a quest’obbligo. Tranne che per il Friuli-Venezia Giulia, dove pendeva una questione internazionale, le altre quattro regioni ebbero il loro Statuto. E fra queste anche la Sicilia, che però, a differenza di altre, istituite dallo Stato, si vide riconosciuto INTEGRALMENTE lo Statuto già esistente del 1946.

L’Assemblea Costituente, che pure era titolata a farlo, scelse di coordinare lo Statuto con la Costituzione facendo prevalere intanto il primo sulla seconda. Fu – è vero – introdotto un comma in un articolo in cui si davano due anni di tempo allo Stato per operare modifiche unilaterali con legge ordinaria, ma quell’articolo sarebbe stato dichiarato “incostituzionale” da una una delle primissime sentenze dell’Alta Corte (la n. 4 del 1948), e quindi è come se non fosse mai stato apposto. La Sicilia continuava a vincere, in apparenza, contro l’Italia. L’Alta Corte decretava l’ordinamento siciliano ormai operante e in fase di attuazione, modificabile ormai solo per mezzo di legge costituzionale.

L’ultima “vittoria” la Sicilia la ottenne con il Decreto del 12 aprile del 1948, il n. 507, che regolava “provvisoriamente” i rapporti finanziari tra Stato e Regione.

Ma qui troviamo, a ben leggere, una prima battuta d’arresto.

Infatti, lungi dal garantire alla Regione la potestà tributaria che le spettava, questo decreto non fa altro che “fotografare” lo Stato dei rapporti già esistenti, rimandando il “match” a futura memoria. La situazione “de facto” del 1947, cominciò a diventare “de jure”: tutti i tributi riscossi nell’Isola andavano alla Regione, che progressivamente si sarebbe fatta carico di tutte le spese correlate. Per quanto riguarda l’art. 38, in attesa di attuarlo lo Stato avrebbe stanziato di volta in volta somme approssimate secondo proprie leggi (le prime, tuttavia, va detto che furono molto generose e in linea con le previsioni statutarie).

La Regione aveva quindi un buon polmone finanziario da spendere, ma non aveva ancora del tutto la possibilità di manovrare la propria finanza. Non poteva nemmeno redigere i propri rendiconti, ma solo i preventivi, perché i rapporti definitivi di dare/avere tra Stato e Regione erano rinviati a data da definirsi, a un “conguaglio finale”, con tutto l’eventuale recupero del pregresso.

Per evitare che la Regione si appropriasse delle entrate, senza farsi carico delle relative spese, la Regione si impegnava a restituire allo Stato ogni somma che questi avrebbe continuato a spendere per suo conto, nell’attesa del trasferimento delle funzioni alla Regione.

Da questo momento in poi comincia il braccio di ferro, combattuto in sede di giurisprudenza costituzionale, con cui lo Stato si va riprendendo tutto quello che fino ad ora aveva concesso.

La successiva storia dei rapporti Stato-Regione, quindi, nel decennio che va sino al 1956, è essenzialmente la storia della giurisprudenza dell’Alta Corte.

Ad ogni pie’ sospinto il Commissario dello Stato, infatti, usò da subito i suoi poteri per cercare di bloccare l’autonomia finanziaria della Regione. I suoi ricorsi furono spesso perdenti davanti all’Alta Corte ma – essendo questa in ultimo formata da 4 italiani e 3 siciliani – si cominciò a produrre una giurisprudenza che interpretava il chiaro testo dello Statuto in maniera già un po’ restrittiva rispetto alla formulazione originale.

L’orientamento fondamentale fu preso già nella decisione n. 7 del 1948.

Le leggi dello Stato hanno vigore in tutto il territorio della Repubblica, compresa la Sicilia, senza che occorra una legge regionale di recezione”. Passettino indietro, quindi.

“Si noti pure che, nella materia tributaria, la Regione Siciliana non ha ‘legislazione esclusiva’”. Altro passo indietro.

E tuttavia non si nega che la Regione possa legiferare in materia, ma “in determinati limiti”.

Un primo limite è dato ovviamente “dalle norme costituzionali”. E fin qui, anche le materie di potestà esclusiva…

Un secondo limite dai “principi e gli interessi generali cui s’informa la legislazione dello Stato”, assimilando la materia alle discipline concorrenti di cui all’art. 17 dello Statuto.

Un “terzo” limite, che riduce la potestà legislativa in materia tributaria in maniera più stringente rispetto alle stesse materie legislative concorrente “ha la sua base nella territorialità del potere della Regione; la quale importa non solo che la legge regionale abbia efficacia entro i confini della Regione, ma che non debba turbare, con le sue disposizioni, gli interessi e i rapporti tributari nel resto del territorio della Repubblica”.

Quest’ultima restrizione avrebbe infatti aperto la strada ad un continuo contenzioso in materia tributaria, per capire se l’agevolazione “siciliana” stesse “turbando” o no l’unità economica della Repubblica.

Le altre sentenze si mossero grosso modo su questo solco, facendo vincere, circa nel 60 % dei casi, la legislazione tributaria di maggiore favore della Regione, e nel 40 % circa lo Stato. Ma queste “vittorie” si riferivano a modestissimi emendamenti delle leggi tributarie dello Stato. Lo spirito dell’art. 36 era già stato abbondantemente tradito.

La sentenza 11 del 1950, nel rigettare il ricorso del Commissario contro una legge regionale in materia di imposta di ricchezza mobile e di imposta ipotecaria sull’emissione di obbligazioni da parte delle società per azioni, riconosce alla Regione la potestà legislativa in materia di tributi, ma dichiara che questa sarà meglio regolata solo quando al decreto “provvisorio” di cui sopra abbiamo detto sarebbe stato sostituito quello “definitivo”. E quindi nel frattempo questa potestà legislativa restava compressa dai limiti posti dalla stessa giurisprudenza dell’Alta Corte.

La sentenza 15 del 1950 riconosce alla Regione la potestà legislativa in materia di riscossione di imposte dirette, non solo nella previsione speciale di cui al 2° comma dell’art. 37 (per i redditi prodotti in Sicilia da imprese aventi sede all’esterno del suo territorio) ma “come necessaria conseguenza della potestà deliberativa in materia di tributi riconosciuta alla Regione medesima”.

Ribadisce la corte quanto già contenuto nel decreto “provvisorio” del 1948, e cioè che la “Regione Siciliana riscuote direttamente le entrate di sua spettanza”.

La sentenza 18 del 1951 comprime un altro po’ la potestà tributaria della Regione, introducendo di fatto un quarto limite, oltre ai tre sopra ricordati, e fissati nel 1948: non solo il rispetto dei principi generali dell’ordinamento tributario, ma anche il rispetto dei “principi che si desumono dalle varie leggi tributarie dello Statoe, in successiva sentenza del 1954, ancor più chiaramente dei “principi fondamentali fissati dalla legislazione statale per il tributo stesso”. Quindi la Regione, nel legiferare in materia tributaria, non poteva più creare nuovi tributi “sostitutivi” di quelli statali, ma, rispetto a quelli esistenti, introdurre solo modeste modifiche di aliquote, di basi imponibili, di detrazioni o deduzioni, e così via, sempre da giustificare per interessi specifici dell’Isola, e sempre “senza turbare”, etc. etc.

Però, nonostante tutto, in quegli anni la Regione faceva uso come poteva di questa modesta autonomia legislativa in materia tributaria, con risultati tutto sommato soddisfacenti.

Questa compressione sembrava trovare una possibile via d’uscita nella sentenza n. 54 del 1952 che, confermando che le leggi statali hanno vigore anche in Sicilia, eccettua che le stesse leggi statali potrebbero porre “limiti territoriali alla loro applicazione”, ovvero che potrebbero sussistere già “leggi regionali sullo stesso oggetto”. La Corte dava così la possibilità alla Regione di riprendersi per intero la propria potestà legislativa in materia tributaria. Come? Con i decreti attuativi “definitivi” a farsi, i quali – in quanto legge dello Stato – avrebbero potuto benissimo porre un limite territoriale all’applicazione delle future leggi statali in materia tributaria, e, parimenti, attribuire alla Regione la facoltà di emanare leggi che, per materia, non sarebbero poi state sostituibili da leggi statali di pari oggetto.

Questa via d’uscita, attraverso nuovi decreti attuativiè ancora attuale in questo 2016! SE LA REGIONE AVESSE UN PRESIDENTE DEGNO DI QUESTO NOME, POTREBBE IMPORRE ALLO STATO NUOVI DECRETI CHE INIBISCANO L’EFFICACIA DELLE NORME TRIBUTARIE NEL TERRITORIO SICILIANO, RISERVANDO LA POTESTA’ SOSTITUTIVA ALLA REGIONE. E invece oggi abbiamo Crocetta, che rinuncia agli ultimi scampoli di autonomia finanziaria sopravvissuti, ma non corriamo troppo.

Quel fragile equilibrio si sarebbe rotto nel 1956. A soli dieci anni dalla concessione dello Statuto il banco sarebbe saltato. Alessi, di nuovo Presidente, insisteva per l’emanazione dei decreti attuativi “definitivi” in materia finanziaria. Lo Stato non ne voleva sapere.

La risposta dello Stato, all’attivazione della Corte Costituzionale, fu la rimozione di tre giudici dell’Alta Corte siciliana promossi a giudici costituzionali. L’Alta Corte, così resto paralizzata nel proprio funzionamento.

Naturalmente la Regione provvide a nominare il giudice di competenza regionale mancante per ricostituire l’organo. Chiese al Parlamento di provvedere alla nomina dei due giudici mancanti.

Ma qui si consumò il colpo di stato che azzerò completamente l’Autonomia siciliana piegandola a diventare una cosa completamente diversa. Di questo parleremo un’altra volta.

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