Con questa puntata si inizia una storia diversa da quella “istituzionale” che già pubblichiamo da diverse puntate. La “Storia istituzionale”, infatti, si limita a studiare le vicende istituzionali dello Stato di Sicilia attraverso i secoli, per giustificarne il suo diritto storico e naturale all’indipendenza, naturalmente corredando tale diritto di fatti e notazioni giuridiche e non di argomentazioni retoriche o agiografiche che lasciano il tempo che trovano.
Diversa dalla storia “istituzionale” è la storia “politica” che infatti sarà fatta in passaggi più brevi ma più intensi.
Questa è la storia dei Governi e dei Parlamenti che si sono susseguiti nell’Isola, corredata dei passaggi politici e istituzionali più importanti.
Abbiamo deciso di trascurare la storia politica della Sicilia antica, imperiale e saracena, perché troppo lontana da oggi. Forse lo faremo in una fase successiva, quando la storia politica della Sicilia moderna e contemporanea sarà giunta ai giorni nostri.
In questa sede, quindi, partiamo dalla conquista normanna e dal primo dei Governi che ebbe la Sicilia rinata a stato pienamente sovrano: quella del Gran Conte Ruggero I della famiglia degli Altavilla.
Il Governo di Ruggero I è quello del fondatore di un nuovo stato. La conquista della Sicilia ha molti punti in comune con quella che contemporaneamente il Duca di Normandia, Guglielmo il Conquistatore, avrebbe fatto negli stessi anni in Inghilterra (1066, Battaglia di Hastings): a Nord i Normanni sconfiggono gli Anglo-sassoni e fondano il Regno d’Inghilterra, anzi la nazione inglese; a Sud, negli stessi anni, i Normanni, dopo aver conquistato il Sud Italia, mettendo ordine nel caos precedente, invadono la Sicilia saracena, e fondano, in una generazione, il Regno di Sicilia, anzi la Nazione Siciliana vera e propria che nasce proprio in quegli anni, checché ne dicano gli storiografi siciliani coloniali contemporanei che parlano di una Sicilia italiana che non c’è mai stata.
Nel seguito vedremo prima i fatti “politici” strettamente detti, poi quelli politico-istituzionali che ci mostrano come la Sicilia che conosciamo ancora oggi fu proprio allora che prese forma.
Per capire i primi dobbiamo capire com’era fatta la carta geografica il giorno prima dello sbarco dei Normanni in Sicilia.
Nel Sud Italia i Normanni avevano costituito, negli anni immediatamente precedenti, due giovani e potenti stati.
Il primo era quello della famiglia Drengot, che era partito dalla piccola Contea di Aversa e aveva poi sottomesso il principato di Capua (uno stato longobardo, che poi, nel Regno di Napoli sarebbe stato chiamato “Terra di Lavoro”), aveva costretto all’obbedienza feudale l’abbazia di Montecassino e aveva sottomesso il piccolo Ducato di Gaeta, di derivazione bizantina: in pratica andava dai confini della odierna Provincia di Napoli fino ai confini dello Stato della Chiesa (allora “Patrimonio di San Pietro”).
Il secondo era quello della famiglia Altavilla (Hauteville in francese). In quel momento, morti i primi fratelli Altavilla che lo avevano creato ed accresciuto, era nelle mani di Roberto il Guiscardo. Si trattava del “Ducato di Puglia e Calabria”, che si estendeva sulla Basilicata (la corte era a Melfi), sulla Calabria (finita di strappare ai bizantini proprio nel 1159), su gran parte della Puglia (gli Imperatori Romani d’Oriente resistevano ormai solo a Bari e dintorni, ma stavano per crollare), sul Molise e su parte della Campania (l’odierno territorio delle province di Benevento e Avellino, tranne la città di Benevento). Il Principato Longobardo di Salerno, un tempo loro signore, era ridotto a un protettorato, e di lì a pochi anni sarebbe pure caduto nelle mani del Guiscardo che vi avrebbe spostato la capitale.
Entrambi gli stati normanni erano sotto l’alta autorità feudale del papa che aveva “benedetto” queste conquiste e tenuta per sé la città di Benevento (l’avrebbe tenuta sino all’Unità d’Italia), antica capitale del Ducato longobardo di Benevento. Fuori dal dominio normanno, nel 1159 restavano dunque soltanto un po’ di Puglia ai bizantini, il principato di Salerno, ormai moribondo, e i ducati campani, di origine bizantina: quello di Napoli, che aveva inglobato quello di Sorrento, e quello di Amalfi, repubblica marinara.
In quegli anni ’50 era venuto dalla Normandia il più piccolo dei fratelli Altavilla, Ruggero, poco più che ventenne (era nato nel 1131), cavaliere ancora senza arte né parte, che si mise al servizio del fratello Duca, distinguendosi subito nella conquista della Calabria, alla fine della quale il fratello che pure gliene aveva promesso mezza, si limitò a dargli una piccola contea sulla punta estrema dello Stivale: la contea di Mileto, che comprendeva anche la città di Reggio Calabria. In pratica era passato da cavaliere “disoccupato” a piccolo feudatario del fratello. Ma il suo valore era molto di più che quello di un signorotto di provincia. Il suo destino non era, come era stato quello del padre, e come toccava al fratello maggiore che era rimasto in Normandia, di fare il piccolo feudatario di un castello, ma di diventare il ri-fondatore dello Stato di Sicilia, dopo mille anni circa di dominazione imperiale, e dopo il “prologo” dello stato islamico.
Nel 1059 papa Niccolò II rinnovò a Roberto il Guiscardo le investiture di Puglia e Calabria, e aggiunse un titolo, che quasi mai Roberto avrebbe usato, e che il papa non aveva alcun diritto di attribuire: quello di “Duca di Sicilia” se avesse conquistato agli infedeli quella terra. Il papa non aveva mai avuto alcuna signoria sulla Sicilia ai tempi dei bizantini, prima della conquista saracena, ma solo numerose proprietà private: nulla che riguardasse il diritto pubblico ma solo il diritto privato. E in quel momento in Sicilia non aveva neanche alcun fedele. A parte gli ebrei, tutta la popolazione di Sicilia era divisa tra musulmani e greco-ortodossi, con i quali si era da qualche anno (1054) consumata peraltro la rottura definitiva con le scomuniche reciproche.
L’investitura papale sarebbe stata sfruttata, invece, proprio dal giovane Ruggero che non rimase a lungo a guardare lo Stretto di Messina.
Era allora la Sicilia islamica in pieno caos istituzionale. In teoria era un regno islamico, e gli uffici amministrativi e finanziari della capitale, Palermo, non avevano cessato di funzionare del tutto, come la locale assemblea dei maggiorenti del paese, la Gemaa. Ma nel resto dell’isola diversi signori si contendevano il titolo di Emiro. Tra questi una controversia particolarmente aspra era tra l’emiro di Castrogiovanni (Enna) Ibn-Hawwashi e quello di Siracusa Ibn-Thimna, già cognati. Ibn-Thimna, vedendosi in difficoltà nel confronto col tiranno di Enna, pensò che se non poteva vincerlo con la forza, l’avrebbe vinto con le alleanze. Pensò di allearsi con i musulmani del Val di Mazara a ovest e, e qui la “novità”, con i cristiani, numerosi, del Val Demone, che mai avevano ben sopportato la dominazione musulmana. Ibn-Thimna strinse un’alleanza con Ruggero, lo chiamò in Sicilia, con la promessa di dividersi le conquiste, esattamente come Eufemio aveva fatto con gli Arabi alcuni secoli prima.
Storico errore dei Siciliani di pensare che qualcuno possa venire da fuori ad aiutarti per “farti re” a casa tua. Così non è, così non è mai stato, e così non fu neanche quella volta.
Nel 1060, esattamente 800 anni prima dello sbarco di Garibaldi, Ruggero, con le sue piccole forze della Contea di Mileto, e con pochissimo aiuto dal fratello Roberto, sbarcò vicino Messina. Sconfisse gli Arabi, ma, non sentendosi sicuro della conquista, ripiegò in Calabria.
Incalzato dalle richieste di Ibn-Thimna, allettato dalla conquista e dall’ambizione, questa volta si organizzò meglio con un’azione congiunta tra i due fratelli, con la venuta anche di molti cavalieri normanni e brettoni accorsi a Sud in cerca di fortuna. Alla fine di febbraio del 1061, nei pressi di Ganzirri, lo sbarco definitivo. Ruggero entra a Messina senza combattere, poco dopo lo raggiungono le armi del fratello. Seguirà l’espugnazione di Rometta, e una fortunata campagna nel Val Demone, dove i Normanni ponevano fortificazioni, come a San Marco d’Alunzio.
Perché i Normanni vincevano tanto facilmente? Ci sono molte spiegazioni che possono essere date: le divisioni dei Saraceni, la scarsità e non coordinamento dei pochi aiuti dall’Africa, mentre quelli dall’Italia meridionale erano molto più sistematici, la collaborazione di Ibn-Thimna, ma anche il genuino sostegno dei Cristiani del Val Demone che vissero la conquista come una liberazione. In effetti laddove arrivavano i Normanni questi erano confermati nelle loro proprietà e affrancati dalla Gezia, umiliante tributo da pagare ai musulmani. Le terre strappate ai musulmani, invece, venivano divise tra i capitani e i militi al loro seguito. Ma un’altra ragione era la profonda fede che animava i Normanni. Essi si sentivano investiti di un compito divino nel liberare la Sicilia da un oppressore eretico e prima di ogni combattimento sentivano la messa, si confessavano e si comunicavano, andando a morire contenti per una causa nella quale credevano. Qualunque cosa se ne pensi, un esercito motivato e compatto vince sempre contro un esercito diviso e demoralizzato, anche se numericamente più potente. Un ruolo, però, potrebbe essere dato anche dall’abilità militare di Ruggero, che in battaglia si rivelò un vero stratega.
Superato il Val Demone, però, la campagna si fa più difficile. Enna è inespugnabile; bisogna tornare indietro. Poi, soprattutto Roberto il Guiscardo, non aveva molto interesse alla Sicilia: aveva da consolidare le sue conquiste nell’Italia meridionale e, sottomessi tutti i Longobardi, annessa la piccola Repubblica di Amalfi, scacciati i Bizantini, cominciava a mirare verso oriente, verso i Balcani. Insomma, lascia il fratello e se ne torna nel Continente. Ruggero fortifica alcuni luoghi nel Val Demone, avvia come può una prima amministrazione delle nuove conquiste su basi feudali (le uniche che conosceva) e ritorna a Mileto.
Qui riesce a concludere un matrimonio che, da giovane squattrinato, gli era stato negato: arriva dalla Normandia Giuditta d’Evreux, di 21 anni, la prima Contessa di Sicilia.
Mentre Ruggero era in Calabria, il suo “alleato” arabo continua a lottare per lui in Sicilia, trovando alleati nell’estremo occidente. Ma qui non mancano rovesci. Ibn-Thimna, proprio come Eufemio secoli prima, è ucciso come traditore dagli stessi suoi correligionari (è il 1062); ora i Normanni sono soli in terra di Sicilia, possono contare solo sul sostegno dei cristiani. Nel frattempo scoppia quasi una guerra tra i fratelli Altavilla in Calabria, perché Ruggero rivendicava il possesso di mezza Calabria, che il fratello gli aveva promesso ai tempi della conquista ma non aveva mai mantenuto. Alla fine la lite si ricompone; i due fratelli si riabbracciano. Mezza Calabria è data a Ruggero, ma la Calabria è in regime di stretta sottomissione feudale alla Puglia, dovendo dare tributi e forze armate al fratello, mentre la situazione in Sicilia era ancora fluida e piuttosto indefinita dal punto di vista istituzionale.
Pacificatosi alle “spalle” Ruggero, ormai trentenne, si sposta con la giovane moglie a Troina, facendone il centro delle sue conquiste in Sicilia. Sono anni eroici per i due giovani. Anni in cui i Normanni, casale dopo casale, strappano terre agli arabi. Giuditta è sempre a fianco di Ruggero, o governa per lui da Troina, quando questi è impegnato a combattere o deve tornare a Mileto per gli affari dell’altra contea sul Continente.
La Sicilia araba chiede aiuto al Nordafrica, ma questi non sono risolutivi. I Pisani riescono a forzare Palermo e a saccheggiarla (1063); segno che la flotta arabo-sicula, un tempo il terrore dei mari, era al collasso. Ruggero teme che Pisani e Genovesi tentino di fare della Sicilia come della Corsica o della Sardegna una loro colonia commerciale. Doveva arrivare prima lui.
Nel 1064 scende di nuovo in Sicilia Roberto il Guiscardo ad aiutare il fratello, ma non è aiuto risolutivo. Nello stesso anno, il temibile nemico dei Normanni, Ibn-Hawwashi, signore di Castrogiovanni, muore.
Il capolavoro delle operazioni militari normanne, però, è la presa della capitale, nel 1071. Sono giorni eroici. I cavalieri normanni, con una carica, irrompono dentro una porta della città, ed escono indenni dall’altro lato. Alla fine gli Arabi si arrendono. Ruggero, intelligentissimo, lascia loro piena libertà civile, economica e di culto nella città della Sicilia in cui erano più numerosi. Scova il vescovo clandestino greco-ortodosso Nicodemo, pastore di tutti i cristiani di Sicilia sotto la dominazione araba, e con lui celebra solennemente la messa nella Cattedrale di Palermo, riconsacrata come Chiesa.
Il 1071 per il quarantenne Ruggero è un vero anno di svolta. Si tenta una prima sistemazione della Sicilia tra i due fratelli. Roberto ottiene l’alta signoria feudale su tutto il Val Demone, ormai pacificato, ma non integrato in maniera organica con il suo Ducato. Ruggero dona a Roberto anche la Signoria sulla capitale, Palermo, ma tiene per sé, senza alcun vincolo feudale col fratello tutte le conquiste fatte e da farsi negli altri due Valli: di Noto e di Mazara. È il “signore” degli altri “Conti” che man mano ha costituito, ma non ha un vero titolo. Sino ad allora era stato un “primus inter pares”, firmandosi perciò anche come “Console di Sicilia”, quasi la Sicilia fosse una Repubblica; da quel momento prende a chiamarsi “Gran Conte” di Sicilia per sottolineare il suo primato feudale rispetto agli altri conti. Non può chiamarsi “Duca” però, perché non esiste un “Ducato di Sicilia” e per non litigare inutilmente con il fratello maggiore, che gli conveniva avere come amico per non aprire un fronte infruttuoso quanto pericoloso.
Negli anni seguenti la guerra continua, anche se ormai da una posizione di forza. Ma non mancano dispiaceri a Ruggero. Nel 1075, il figlio Giordano e il genero, mentre egli era in Calabria, subiscono rovesci ad opera degli Arabi. L’anno dopo muore Giuditta, a soli 26 anni, dopo avergli dato 4 figlie femmine.
Nel 1077, a 47 anni, che all’epoca erano un’età assai matura, si sposa di nuovo con Eremburga di Mortain, seconda contessa di Sicilia. Anche questa moglie non gli avrebbe dato eredi maschi che gli sarebbero sopravvissuti, nonostante ben 7 parti negli anni successivi.
A questo punto Ruggero si sposta in Sicilia dove conduce una lotta senza quartiere per consolidare il proprio dominio. Preso com’è dalla lotta, accetta di buon grado nel Continente la soggezione feudale al fratello, ed evita contese, ma anche qualunque tipo di rapporti, con i potenti dell’epoca: il papato, l’Impero d’Occidente, quello d’Oriente. Anche sulla I Crociata resta freddo e si sfila rispetto all’entusiasmo generale: lui la Crociata la stava facendo già a casa sua, e certamente, col senno di poi, con risultati ben più duraturi dell’avventura europea in Medio Oriente.
Uno dei problemi di fatto che si ritrovava Ruggero era quello dell’organizzazione ecclesiastica del nuovo dominio. La Chiesa era un elemento di governo imprescindibile per i tempi. E il papa di fatto gli aveva lasciato ogni autorità, essendo quella una terra di confine. Ruggero costituì così l’organizzazione delle diocesi, non potendo restaurare quella bizantina, ormai scomparsa. Ancora oggi la mappa delle diocesi siciliane segna quella che era la distinzione amministrativa fatta da Ruggero e dai suoi immediati successori.
Alla conquista di Palermo si rese conto che il vescovato di Palermo era l’unica diocesi dell’Isola, troppo poco per una terra cristiana così grande. E poi che fare con i greco-ortodossi? Cioè con la maggioranza dei Cristiani? La risposta di Ruggero fu intelligente: li trasformò in “Uniati”, cioè in cattolici di rito greco: basta che troncassero ogni legame con Costantinopoli (che già di fatto avevano troncato negli anni della clandestinità islamica) e potevano mantenere tutto: rito, canone orientale, lingua, tipo di spiritualità e di culto privato. Così la diocesi di Palermo, sin dal suo nascere, fu di doppio rito, greco e latino, e il vescovo di rito greco trovato in clandestinità non fu rimosso. Ma, alla sua morte, fu sostituito per sempre con vescovi palermitani di rito occidentale.
La prima diocesi creata da Ruggero fu quella di Troina, nel 1078, nella prima sua roccaforte del Val Demone, con “competenza” sia sulla chiesa greca, nel Val Demone assolutamente prevalente, sia su quella latina, che si stava faticosamente edificando.
Da allora Ruggero cominciò a costruire numerose abazie, molte delle quali nel luogo in cui erano prima della devastazione musulmana, così come erano ancora ricordate dalla pietà popolare dei luoghi. Queste abazie erano in realtà dei feudi come tutti gli altri, con lo svantaggio che i feudi ecclesiastici non prestavano servizio militare, ma con il vantaggio che non erano ereditari e non sfuggivano quindi al controllo regio. Infatti molte di queste abazie/feudi nei secoli successivi avrebbero goduto di un seggio nel Parlamento di Sicilia e sarebbero state assegnate a discrezione del Governo come “commende di regio patronato”.
La politica ecclesiastica di Ruggero era bifronte. Da un lato riedificava abazie di rito greco, apriva conventi basiliani, inquadrava tutta la chiesa greca nel nuovo gregge cattolico; dall’altro lui, uomo di spada, si serviva soprattutto dei suoi monaci benedettini francesi, per organizzare il nuovo stato, insieme agli elementi autoctoni, greci o saraceni che fossero. E un po’ per questo, un po’ perché i Normanni erano latino-cattolici, un po’ perché numerosi furono gli italiani al suo seguito, tanto dall’Italia meridionale, che si stabilirono soprattutto nelle città, quanto da quella centro-settentrionale, che costruirono vere e proprie colonie nelle non poche zone interne abbandonate dagli arabi, sta di fatto che l’elemento latino-cattolico si andava organizzando, dove più robusto, dove presente appena appena. In ogni caso, venendo dalla Francia, i Normanni introdussero in Sicilia come rito latino quello “gallicano”. I Siciliani avrebbero pregato e sarebbero andati in Chiesa come i Francesi, e non come gli altri Italiani che invece usavano i Riti romano e ambrosiano, addirittura fino al Concilio di Trento (fine ‘500) quando alla Sicilia sarebbe stato esteso il rito romano, dopo mezzo millennio di rito gallicano.
Nel 1085, durante una spedizione nei Balcani, Roberto il Guiscardo muore. I suoi figli, successori di questi nel Ducato di Puglia, non ne erano all’altezza, e chiesero aiuto allo zio “siciliano” e poi al figlio. Ruggero I si dimostrò ancora una volta abile diplomatico. Non pretese “l’indipendenza” dalla Puglia per la Calabria, né il titolo di Duca. Andava al sodo lui. Rinnovò la sottomissione formale della Calabria alla Puglia, ma si fece dare l’altra metà della Calabria. Adesso la Corte di Mileto signoreggiava su una “Gran Contea di Calabria” che solo teoricamente faceva parte del Ducato di Puglia (che ormai negli atti pubblici i duchi non avevano più il coraggio di chiamare “e di Calabria”). La Puglia rinunciava anche ad ogni diritto sul Val Demone. In questo modo, a parte la città di Palermo, la corte comitale di Troina, poi spostata a Messina, signoreggiava su una Gran Contea di Sicilia che comprendeva ormai la maggior parte dell’Isola.
Nel 1086, con la caduta di Siracusa, le sorti della guerra in Sicilia sono ormai irreversibili. Per i Saraceni non c’è scampo. Isolati da ogni comunicazione esterna gli ennesi patteggiano la resa e una fuga onorevole con salvacondotto fino alla Tunisia nel 1087. Nello stesso anno, per la seconda volta vedovo, a 56 anni, Ruggero fa un matrimonio “politico”: si sposa con una nobildonna piemontese, Adelasia del Vasto, che all’atto del matrimonio è solo una ragazzina di 13 anni. La sensibilità di oggi ci porterebbe a considerarlo quasi un caso di pedofilia; ma ai tempi il diritto canonico e la prassi ritenevano normale che le donne, dai 12 anni in su, in pratica dal primo formarsi come donne, fossero considerate adulte a tutti gli effetti. E la loro vita non era affatto facile, neanche per le regine o le nobildonne. Dovevano produrre eredi su eredi, praticamente un parto l’anno, fino a che spesso e fatalmente qualche infezione o qualche emorragia non se le portava via.
Ruggero, ormai anziano, procede nel frattempo instancabile con lo stabilimento degli ordinamenti ecclesiastici: nel 1088 avrebbe costituito l’Isola di Lipari in abbazia vescovile, con giurisdizione sulle Eolie; nel 1090, la diocesi di Troina è trasferita a Messina; l’anno dopo toccherà alla fondazione di Catania, altra diocesi monastica, affidata ai benedettini, che sarebbe rimasta tale fino al Concilio di Trento. Negli anni successivi sarebbero state costruite amplissime diocesi, in regioni ancora per lo più abitate da musulmani: Girgenti, Mazara (che ancora oggi è sede vescovile), Siracusa e infine, unita a quella di Lipari, la diocesi vescovile di Patti nel 1098 (che ancora oggi non a caso è sede vescovile).
Una nuova richiesta di aiuto dall’imbelle nipote, suo teorico signore nel Continente, gli frutta la restituzione di mezza città di Palermo, il Cassaro, nel 1091. Ormai la Sicilia, anche se con status incerto, è davvero uno stato a sé. Ruggero avrebbe lasciato alla Puglia, alla sua morte, in pegno solo la cittadella della Kalsa, allora amministrativamente separata da Palermo e ultimo vestigio dell’alta sovranità del fu fratello Guiscardo, e che sarebbe rimasta tale fino al 1122, quando Ruggero II ne venne in possesso unificando l’amministrazione municipale di Palermo, ormai capitale del nuovo stato.
Nel frattempo, nel 1093, con la resa di Butera la “Croce” regnava su tutta l’Isola. I musulmani erano stati sconfitti dappertutto. La conquista della Sicilia era finita. Lo stesso anno muore Giordano, il coraggioso figlio naturale, compagno di quasi tutte le battaglie. L’epica è simbolicamente finita. Ora si deve organizzare un regno, ma Ruggero, il conquistatore, non arriverà in tempo a svolgere questo ruolo, ormai vecchissimo, almeno per i tempi. Arriva solo ad organizzare una vera e propria flotta, su ciò che restava di quella araba, e con quella ripulire il Canale di Sicilia, occupare Malta, dove ricostituisce la locale diocesi, e a chiudere un trattato di pace con il dirimpettaio sovrano tunisino, al quale per ora è lasciata Pantelleria: la prima isola a cadere sotto gli arabi sarebbe stata anche l’ultima a vederli andar via.
Ruggero I fu una sorta di “uomo del destino”. Non poteva uscire di scena senza aver gettato due basi istituzionali fondamentali di quello che sarebbe stato il Regno di Sicilia.
Nel 1097, a Mazara, abbiamo notizia (forse ce ne furono altre ma non è attestato) di un’adunanza della Curia Comitale allargata ai Baroni e ai Prelati per risolvere una controversia pratica. Non era ancora nulla più che una di quelle solite antiche assemblee dei capi vichinghi e normanni con i loro “compagni”. Non era un vero “Parlamento”, forse un “Protoparlamento”. Secondo noi perché si possa parlare di un Parlamento devono concorrere due elementi che nell’assise di Mazara non sono ancora presenti, “ancora” appunto, ma il processo era avviato. La prima è che l’assemblea, perché si dica Parlamento non dovrebbe essere solo (come quella fu) una semplice assemblea di feudatari, ma dovrebbe avere una, sia pur limitata, rappresentanza del “terzo stato”, dei “comuni”, o anche solo di uomini tratti da quella che oggi chiameremmo la “società civile”, a rappresentare la Nazione. Così ancora a Mazara non era. La seconda è che l’oggetto delle deliberazioni dell’assemblea dovrebbe essere legislativo, o finanziario, o comunque di rilievo politico o istituzionale. Non così a Mazara, dove si dibatteva una questione amministrativa e giuridica comune. Ma era certamente una “cosa un po’ indefinita”, una forma molto larvale di “rappresentanza della Nazione” come allora poteva concepirsi, che a poco a poco sarebbe diventato quello che oggi chiamiamo “Parlamento”, una delle più grande invenzioni che la monarchia siciliana avrebbe dato al mondo. Tutti gli antichi popoli ariani, da tempo immemorabile, avevano visto il “consiglio” del Re, del condottiero, con i suoi principali compagni di lotta. Questa usanza si era conservata tra i Germani, e molto di più tra i remoti Vichinghi. Poco per volta le assemblee di soldati si trasformarono, man mano che i popoli divenivano stanziali, in assemblee di feudatari, tra i quali non mancavano i prelati, nella qualità di feudatari ecclesiastici.
Da queste primitive assemblee sarebbero nati i moderni parlamenti, non a caso tutti in paesi normanni o post-vichinghi: le Faer Oer, l’Islanda, l’Inghilterra dei Plantageneti, e – appunto – la Sicilia degli Altavilla. Semmai la Sicilia, come e più dell’Inghilterra, segna un percorso molto precoce nell’evoluzione della propria Costituzione parlamentare. Se è stato provinciale ed antistorico retrodatare la definizione di Parlamento all’assise di Mazara del 1097 che alcuni storici siciliani hanno voluto dare per troppo amore alla loro terra, è non meno antistorico l’atteggiamento complessato degli storici siciliani contemporanei colonizzati nell’animo, che fanno a gara per sminuirne l’importanza e per negare il nesso, evidente, tra le assise normanne e la successiva evoluzione parlamentare che sarebbe attestata in tutta l’Europa del Nord e negata soltanto, chissà perché, proprio in Sicilia.
L’altra grande innovazione istituzionale sarebbe stata segnata l’anno dopo quando, riconoscendo una situazione di fatto creatasi dal tempo della conquista, papa Urbano II riconosce Ruggero “Capo della Chiesa di Sicilia”, con l’Apostolica Legazìa (1098): è l’inizio di una storia di chiesa autocefala che sarebbe arrivata alla Legge sulle Guarentigie del neonato stato italiano (1871). Il Gran Conte era “Legato apostolico” nato, cioè capo gerarchico di tutta la Chiesa di Sicilia: nominava i vescovi e decideva le cause ecclesiastiche. Era, fuorché sulle materie di fede, un vero e proprio “papa” dentro i confini della Sicilia, con vere e proprie funzioni sacerdotali.
Pago di tanto sforzo, Ruggero I arriva a salutare il nuovo secolo, e si spegne a Mileto a 80 anni compiuti nel 1101, lasciando una giovane vedova di 27 anni con due bambini, e uno stato, feudale, ma molto solido.
Era arrivato giovanissimo nel Sud Italia dal freddo e spoglio castello del Cotentin. Chiudeva gli occhi molto vecchio, signore di un nuovo stato, nel cuore del Mediterraneo, ricchissimo e potente. La sua epopea sarebbe stata oggetto di idealizzazione nella cultura popolare a venire. Ruggero pare sia stato un po’ come tutti i normanni, biondo, con gli occhi azzurri, ma di statura non alta. Sarebbe finito nelle storie dei cantastorie, magari confuso con Carlo Magno e con gli eroi della Chanson de Roland che avrebbero dato vita ai paladini di Francia: Ruggero il liberatore, l’eroe, contro i “cattivi” musulmani, i “turchi”, che tenevano in catene la nostra Sicilia. Un mito che sarebbe poi finito persino nelle pale variopinte dei carretti siciliani.
Ma com’era veramente lo “Stato di Sicilia” sotto Ruggero I? Al di là dell’epopea e delle conquiste, com’era la Sicilia allora?
Qui la poesia e il clangore delle armi deve lasciare il passo alla prosa dei documenti e degli archivi.
(Nella cartina il dominio delle Gran Contee di Sicilia e Calabria alla morte di Ruggero I, nel 1101; La Kalsa, dentro Palermo, apparteneva ancora alla Puglia)
Sotto Ruggero, magari inconsapevolmente, si gettano le basi costituzionali, legali, amministrative e giudiziarie, di quello che sarebbe stato nei secoli l’ordinamento del Regno di Sicilia.
Non tutti gli storici sono d’accordo sull’esistenza o meno, sotto di lui, di una stabile struttura amministrativa. Essa però, stabile o no, doveva certo esserci per svolgere le essenziali funzioni pubbliche e politiche di allora. Per induzione dall’epoca del figlio Ruggero II, durante la quale esisteva una stabile e organizzata “Curia Regia”, certamente, sia pure allo stato embrionale, doveva esserci una Curia Comitale, cioè una sorta di ufficio che garantiva il funzionamento dello Stato. Non c’è dubbio, tuttavia, che la Curia di Mileto, per la Calabria, fosse nettamente disgiunta da quella sicula, dapprima a Troina, poi a Messina, e infine itinerante tra Messina e Palermo, quando Ruggero venne in possesso della capitale.
Tutti gli uffici pubblici del Regno di Sicilia sarebbero nati per gemmazione da questa Curia, come vedremo più appresso con i suoi successori, o per sua restrizione a “Consiglio Regio”, poi “Sacro Regio Consiglio”, o per suo allargamento ai “rappresentanti della Nazione” nelle “Assisi” che poi sarebbero diventati i “Parlamenti”.
I giuristi siciliani dell’età moderna, soprattutto nel XVIII secolo, avrebbero giustificato l’origine parlamentare su una pretesa tripartizione della Sicilia all’atto della conquista. Secondo questa mitologia, Ruggero avrebbe diviso le conquiste in tre parti: una parte ai suoi compagni d’arme, che avrebbero costituito la feudalità, e quindi il “braccio militare” del Parlamento, una parte alla Chiesa, da cui sarebbe derivato il “braccio ecclesiastico”, e una parte l’avrebbe tenuta per sé, da cui sarebbe derivato il “braccio demaniale”. Naturalmente di questa tripartizione non c’è alcuna traccia documentale, né alcuna ragione per la quale Ruggero debba aver pensato a una cosa del genere. Il fondo di verità, che c’è come in ogni leggenda, è un altro. Il paese conquistato vide introdurre il feudalesimo. E moltissimi beni e servizi pubblici furono “infeudati”. Una parte del paese importante, ma non tutta, divenne quindi feudale. E, all’interno di questa, molti feudatari non erano laici ma ecclesiastici. Gli ecclesiastici, quindi, non furono titolari di un diritto primigenio alla “spartizione” delle terre, ma intervennero nei primi consessi da cui sarebbero derivati i parlamenti, proprio nella loro qualità di feudatari, cioè di abati, più spesso che da vescovi, cioè da guide della Chiesa in quanto tale. La parte “demaniale”, infine, era la parte del regno non infeudata, quella dove sopravviveva il diritto romano di proprietà, in teoria amministrata direttamente dal conte/re, e di fatto affidata progressivamente alle autonomie municipali.
Un problema di diritto pubblico è se la Sicilia dei Gran Conti dipendeva o no feudalmente dal Ducato di Puglia. Ovviamente era un periodo confuso, impossibile dire esattamente come stessero le cose. La nostra modesta impressione è che Roberto il Guiscardo si sentisse un alto signore feudale della Sicilia, mentre Ruggero, sin dal primo giorno, prudenza a parte, si comportò come un sovrano indipendente. Come elementi di fatto abbiamo che Roberto il Guiscardo non chiamò mai i baroni siciliani al servizio militare, a differenza di quanto accadeva con la Calabria. Altro elemento di giudizio è che i successori di Ruggero I non pagarono mai alla Puglia quella particolare “imposta di successione”, detta “relevio” che spettava ai successori feudali che volevano essere immessi nel possesso dei loro beni feudali. Si trattava, quindi di un’altissima, e puramente simbolica altissima sovranità feudale, o addirittura nulla. Altro elemento è che mentre i Duchi di Puglia e i Principi di Capua facevano periodicamente atto di sottomissione feudale al papa (fino alla fine del 1700 i Re di Napoli avrebbero mandato una cavalla, la “Chinea”, al papa in tal segno da cui sarebbe derivato lo stesso simbolo del Regno di Napoli, erede di quei feudi, il “cavallo rampante”), Ruggero non fece mai atto di sottomissione feudale al papa.
Ruggero aveva in Sicilia una legittimazione al potere enorme. La Riconquista Cristiana, e il fatto che la Sicilia non era mai stata “italiana” prima, neanche al tempo dell’Impero, unita al fatto che era ex-provincia di Bisanzio, un impero di cui in Occidente si voleva dimenticare persino il nome, dava a Ruggero una sovranità originaria, assoluta. Questa era soltanto rafforzata dalla spada, dal semplice diritto di conquista, peraltro strappandola a infedeli, che nella concezione medievale non potevano avere alcuna legittimità a detenere quelle terre. E infine, con l’apostolica legazìa, prima di fatto, e poi anche di diritto, il “Conte” era anche “Papa” in Sicilia, all’infuori delle materie di fede, supremo capo religioso e politico, dispensatore di ogni potere. Non è un caso che tutti i giuristi siciliani dei secoli a venire, sino alla fusione con Napoli e oltre, avrebbero giustificato la legittimità di ogni ordinamento siciliano con la volontà dei suoi padri fondatori, Ruggero I e II, fondatori rispettivamente dello Stato di Sicilia e della Monarchia parlamentare di Sicilia.
Quello che mancava alla Sicilia di Ruggero era un Popolo siciliano unitario. Ruggero I dominava su un paese fortemente multietnico. I Siciliani autoctoni erano greci di religione e “latini” o “greci” di lingua (nei rispettivi volgari). A questi si sovrapponevano i nuovi venuti: alcune centinaia, forse migliaia, di conti, baroni e militi francesi, fossero essi normanni o brettoni, che parlavano tra di loro dialetti francesi; colonie di campani e pugliesi al seguito dei Normanni, commercianti nord-italiani nelle città, e coloni “lombardi” in molti centri dell’interno, che mantenevano i loro idiomi. Ancora, a questi si aggiungeva l’elemento arabo e islamico, seppure in lento regresso, e quello ebraico, arabo pur esso di lingua o quasi.
Questi popoli si sarebbero miscelati nel giro di poche generazioni, dando vita ai Siciliani, e al “Siciliano”, come lo conosciamo ancora oggi. La base greca si sarebbe fusa con elementi di grammatica normanna, con innesti italiani e arabi. La confusa parlata “romanza” sopravvissuta a malapena nel Val di Mazara a secoli di influsso greco ed arabo, si sarebbe trasfusa nel nuovo siciliano. Ma non era tempo ancora per il volgare. I documenti dell’epoca sono trilingui, con una presenza ancora minoritaria del latino. La forza del Conte, inusuale in Europa, derivava anche dalla capacità di mediazione tra i vari gruppi etnici, ai quali venivano lasciati al loro interno usi e leggi proprie. I cristiani furono affrancati dalla Geziah, ma questa venne lasciata agli ebrei, abituati a pagarla sotto il giogo islamico.
Le comunità lasciate autonome non erano ancora veri e propri “comuni”, come li intendiamo oggi, ma “comunità di persone” di una stessa religione o ceppo, lasciate auto-organizzate (i musulmani, ad esempio, avevano i loro “kaìd”). Si sarebbero evolute in istituzioni municipali poco per volta, man mano che un solo ceppo prendeva il sopravvento sugli altri.
La “capitale” in senso moderno non era ancora ben definita tra Palermo e Messina, mentre Mileto era certamente il centro dell’amministrazione calabrese. La prima fu acquisita tardi dalla Puglia, e Ruggero vi trovò un’amministrazione finanziaria, il “diwan”, latinizzato in duana, che lasciò permanere, insieme alla flotta. Dopo il passaggio dalla Puglia alla Sicilia, Palermo si avviava a diventare capitale e le sue istituzioni da municipali a nazionali, ma Messina conservò sempre un ruolo di primo piano, roccaforte della prima conquista normanna, e punto di collegamento con l’altra Gran Contea, quella di Calabria. Nel seguito non ci riferiamo peculiarmente a quest’ultima, dove sopravvivevano assai bene le istituzioni bizantine (anche i confini delle diocesi calabresi ricalcano la mappa bizantina) innestate con il feudalesimo franco-normanno.
In uno “stato feudale” non ha molto senso parlare di “divisione amministrativa”. Le funzioni periferiche del governo erano infatti svolte essenzialmente dai feudatari. Le suddivisioni ammnistrative di riferimento rimasero quelle arabe: Vallo di Mazara, Val Demone, Val di Noto. A sua volta, la mappatura delle diocesi metteva ordine all’interno dei Valli stessi.
L’amministrazione dello Stato, a livello centrale, rimase piuttosto confusa e accentrata nelle mani dei benedettini più stretti collaboratori del Conte. Come abbiamo detto la “duana” rimase, per la gestione contabile e finanziaria del nuovo stato, ma all’inizio era solo un’istituzione palermitana. In periferia i principali funzionari amministrativo-contabili erano detti “arconti”, alla greca. Bisogna attendere l’opera di Ruggero II per mettere ordine nelle primitive istituzioni dello Stato.
La monetazione era ancora caotica, lasciata per inerzia dal periodo arabo. Le relative iscrizioni erano solo in arabo, a caratteri cufici, o in arabo e in greco, ma non ancora in latino. È interessante vedere come il “dirham” arabo, ancora in uso in molti paesi arabi, calco dell’antica “dracma” greca, sia diventato ora in Sicilia “tareno”, e quindi “tarì”, pari a un grammo d’oro o poco più. Si diffondono, sull’uso greco, sottomultipli di rame, come i follari, o i “trifollari”, cioè tre follari, ma è importante come la Sicilia di allora aveva la piena circolazione aurea ancora sconosciuta nell’Europa barbara ancorata all’argento. Tranne un’emissione a Palermo, intestata a Roberto il Guiscardo, tutte le altre sono intestate a Ruggero I, altra dimostrazione della piena sovranità della Sicilia, che batteva moneta propria.
L’imposizione tributaria era solo in parte di tipo monetario. Erano dovute anche derrate in natura o obblighi di servizi. Si trattava di consuetudini o di disposizioni del sovrano. A parte la gezia degli ebrei e il relevio dei feudatari, lo Stato siciliano viveva essenzialmente di una pletora di piccole gabelle che oggi diremmo “imposte indirette”. A loro volta, su autorizzazione del sovrano, anche i feudatari e le città potevano “imporre” gabelle sui loro sottoposti.
L’ordine pubblico, l’amministrazione della giustizia civile, la raccolta dei tributi e la guardiania delle fortezze era affidata a una serie di ufficiali diffusi nel territorio, i vice-comiti, cioè i sostituti del Gran Conte, poco più che dei castellani in quel mondo semplificato. Normalmente i vicecomiti erano nominati dal Gran Conte, ma a non pochi feudatari, all’atto della concessione del feudo, era data facoltà di nominare liberamente i vice-comiti nel loro territorio.
La giustizia civile, oltre alla riscossione delle tasse, affidata ai “vice-comiti”, non aveva ancora una “procedura civile”. E non esistevano i “giudici di professione”. Si nominava un giurì, presieduto dal Vice-comite, questo sommariamente discuteva e deliberava sui processi. Non si conservavano atti. La giustizia civile era chiamata “bassa giustizia”, per distinguerla dall’“alta giustizia”, avente ad oggetto il diritto “criminale”.
Questa era un po’ più strutturata, ed era affidata agli Stratigoti, di norma nominati direttamente dal Gran Conte. Quando questi erano affidati alla nomina di un feudatario era necessaria una concessione specifica da parte del Gran Conte, e non poteva quindi essere una facoltà annessa nell’atto comune di investitura feudale come invece accadeva per la giustizia civile. Alcune massime funzioni penali erano riservate al Gran Conte: cause su omicidi, o per fellonia (alto tradimento), ovvero le decisioni sulla pena di morte o pene corporali. Gli appelli al Gran Conte dalla giustizia minore erano teoricamente possibili, ma praticamente non se ne ha notizia.
Complessivamente si deve a Ruggero I l’introduzione in Sicilia del feudalesimo. Curiosa sorte quella della Sicilia. Nell’XI secolo il feudalesimo aveva raggiunto il suo massimo splendore e cominciava la propria crisi, già manifesta in Italia. Ciò che altrove declinava in Sicilia invece veniva a instaurarsi. Ma il feudalesimo siciliano, istituito dalla spada del condottiero, non prevedeva ampia autonomia ai suoi beneficiari rispetto al sovrano.
Ma che cos’era giuridicamente il feudalesimo? Il feudalesimo consisteva nella concessione, quasi sempre ereditaria, di proprietà e funzioni pubbliche da parte del sovrano, in cambio di un giuramento di fedeltà e di un servizio. Il servizio feudale fondamentale era quello militare. L’esercito siciliano, almeno quello di terra, fu costituito per secoli proprio dalle milizie feudali. Poi, accanto a questo servizio essenziale, si aggiungevano al bisogno speciali prestazioni in denaro e in natura. Fu tutta la Sicilia ad essere organizzata secondo i principi feudali portati dai cavalieri normanni. Era questo il nuovo ordinamento siciliano e certamente la più grande novità politico-istituzionale di quegli anni, destinata ad influenzare la Sicilia per molti secoli a venire. Il successore doveva comunque un’imposta di successione, il “relevio”, da pagare al Gran Conte (poi al Re) per l’immissione nel possesso del feudo.
All’inizio era possibile anche un’infeudazione dei più grandi possedimenti feudali in sub-feudi.
In un certo senso, quindi, dobbiamo a Ruggero l’introduzione in Sicilia dell’aristocrazia militare. Farne parte equivaleva ad essere fanti o cavalieri, comunque soldati.
Al vertice i compagni di Ruggero, i conti, con estesissimi possedimenti. Sotto di loro i baroni, con piccoli feudi, infine i militi, soldati semplici, con feudi non stabilmente abitati o soltanto proprietà private (beni allodiali).
Naturalmente, oltre alle milizie feudali, dalle città che aveva ritenute per sé, il governo aveva le proprie milizie, oltre alle fortezze affidate a persone di propria fiducia. E infine l’armata, cioè la vecchia flotta saracena, mai disciolta, da ora in poi, fino al 1816, organizzata come Marina militare del nuovo stato. La Marina, a differenza dell’Esercito, era centralizzata e dipendeva direttamente dal Gran Conte.
I beni feudali, e le concessioni feudali, erano di due tipi: di diritto pubblico o in demanio, cioè conferiti direttamente dal Gran Conte (poi dal Re), ai Conti, comprensive di servizi pubblici, come l’amministrazione della giustizia; di diritto privato o in servizio, quasi sempre sub-concessioni feudali, non sempre ereditarie a loro volta, di sfruttamento di terreni o altri beni.
L’introduzione della feudalità aveva creato una stratificazione sociale. L’aristocrazia aveva al di sotto molti uomini liberi, o “autoctoni” siculo-sicelioti, o “italiani” immigrati a frotte nel nuovo eldorado siciliano. Gli uomini liberi, vivevano nei borghi, demaniali o feudali che fossero, disponevano liberamente delle loro proprietà, relativamente ricchi, così così, o anche poveri. Venivano accomunati dalla dizione di “burgisi”. I borghesi di città, spesso organizzati in corporazioni commerciali o artigiane, erano un po’ più liberi, di quelli dei centri feudali, spesso detti anche “vassalli”, per la presenza di obblighi nei confronti dei loro signori feudali.
Al di sotto, ancora molto diffusi, i “villani”, spesso diffusi per i casali di campagna ovvero anche nei borghi. Erano “servi della gleba”, liberi personalmente con un pezzo di terra personale, ma attaccati al feudo dal quale non potevano allontanarsi senza il permesso del signore feudale. Non potevano sposarsi o prendere i voti senza il consenso del signore feudale. Erano in gran parte siciliani di lingua greca.
A proposito di clero, questo era estremamente trasversale tra le varie classi: si andava dai grandi abati benedettini presi dalle famiglie aristocratiche ai più modesti “papas” greci in stato di semi-libertà dei feudi per il servizio sacro dei coloni, con tutte le fasce intermedie.
La schiavitù vera e propria teoricamente era ancora in vigore, e lo sarebbe stata fino al Congresso di Vienna, come lascito del diritto romano, ma interessava solo una piccola parte della società. Lo schiavismo era già andato declinando in Sicilia ai tempi del Basso Impero (III-V secolo d.C.) per il complessivo calo demografico, e poi ancor più in epoca bizantina e saracena, quando permaneva, ma era già marginale. Con la venuta dei Normanni la schiavitù, con l’affrancamento generalizzato di tutti gli schiavi cristiani dei Saraceni, divenne ancor più marginale. Ormai la vera forma di servitù era la “colonìa”, cioè la servitù della gleba, allora molto diffusa in Sicilia.
È interessante notare, però, che non tutta la proprietà privata era “infeudata”. Era infeudata solo quella conquistata, insieme a talune funzioni pubbliche. Tutte le altre proprietà private, già conservate dai cristiani, pagando la geziah ai musulmani, ovvero detenute da musulmani e ex-musulmani, erano soggette sostanzialmente a qualcosa di molto simile al moderno diritto di proprietà, senza particolari obblighi o gravezze pubbliche. Questi beni di proprietà privata vennero chiamati beni burgensatici (perché spesso detenute dai “burgisi”) o allodiali.
Per finire ci chiediamo quale diritto fosse applicato in Sicilia ai tempi di Ruggero I. Le comunità non cristiane (islamici, ebrei) avevano la facoltà di applicare, ma solo al loro interno, le loro leggi, con i loro magistrati.
I coloni lombardi, nelle terre loro concesse, si erano portate dietro le loro consuetudini longobarde.
Nell’organizzazione del nuovo stato abati benedettini francesi e cavalieri normanni o brettoni si erano portati dietro il diritto feudale franco, che nel tempo si sarebbe adattato al contesto siciliano.
Ma il grosso della popolazione, e quindi gli “aborigeni”, fossero essi parlanti in “romanzo” (cioè in Siciliano) o in “siceliota” (cioè nel greco molto corrotto di allora), mantennero, anzi rivitalizzarono, il Diritto Romano, che era sempre stato il diritto dei Siciliani, insieme alle “consuetudini municipali”, così come era da antichissima data. Col tempo si formò così un diritto a tre livelli: internazionale (romano), nazionale (siciliano) e municipale (locale), con la prevalenza del secondo, come fonte, sul primo e sul terzo. Il Corpus Juris di Giustiniano resterà la legge principale siciliana fino al 31 dicembre 1819.
Quindi, consuetudini feudali a parte, la Sicilia continuava ad essere una “Provincia” ideale dell’Impero Romano, più greca e più romana (in senso classico), degli stessi greci ed italiani del tempo, nazione autonoma di un ideale impero universale.