Una riflessione di Giovanni Maduli sulla perdita della moralità della classe politica italiana dal 1860 ad oggi…
di Giovanni Maduli
Come e perché sia nata la Repubblica Italiana e ancor prima il Regno d’Italia ormai è a conoscenza di molti, ancorché non di tutti. Molti infatti sono a conoscenza delle truffe e degli inganni perpetrati dal Regno d’Italia prima e dalla Repubblica Italiana poi nei confronti della Sicilia e di tutto il Sud. Basti, fra gli innumerevoli altri, ricordare come una volta fatta l’unità d’Italia abbiamo dovuto subire il vertiginoso aumento delle tasse (compresa la tassa di guerra, cioè la tassa per essere stati invasi!), la chiusura dei maggiori opifici con trasferimento al nord dei relativi macchinari, la drastica riduzione dei telai tessili, la leva militare obbligatoria per finire, si fa per dire, con la “cessione” alle banche del nord del Banco di Sicilia pochi anni addietro, con gravissime ripercussioni su tutta l’economia meridionale essendo trasferita di fatto al nord la sua liquidità.
Ma non è su questi aspetti che desidero soffermarmi con questo articolo, piuttosto su altri che hanno caratterizzato, in maniera forse anche peggiore, la perdita della nostra indipendenza e cioè, in primis, la totale perdita di moralità della classe politica italiana a far data da quel nefasto 1860. Perdita di moralità che iniziata con la corruzione di moltissimi esponenti delle classi elevate militari e nobiliari, è proseguita poi attraverso intrallazzi, compromessi, imbrogli, maneggi, quando non addirittura con vere e proprie compromissioni con la malavita locale che, da allora, ha ampliato e non di poco la sua influenza sulla vita politica e sociale del regno italico prima e della successiva Repubblica poi, come molte recenti sentenze purtroppo dimostrano.
So bene che sul termine “moralità”, e cioè su cosa sia morale o immorale potrebbe aprirsi una discussione pressochè infinita, ma la moralità alla quale qui faccio riferimento è, mi sia consentito, la moralità del senso “comune”, quella, se si vuole, popolare e proletaria, financo “spicciola” e forse anche un po’ bacchettona; moralità che però, credo, pur con tutti i suoi limiti e contraddizioni, era e forse sarebbe ancora in grado di porsi quale margine invalicabile nei confronti di quegli arbitrii, di quei “piacimenti” e di quelle “libertà” ai limiti del legale, quando non platealmente illegali, che ormai costellano quotidianamente la vita dello stato a suo tempo impostoci.
Gli esempi potrebbero essere infiniti, piccoli, si fa per dire, e grandi: dalla perdita dell’uso della propria casa in caso di occupazione fulminea e abusiva da parte di chicchessia, alla “nomina d’ufficio” di ministri, presidenti e governi; dalla giusta solidarietà verso chi ha bisogno, al vedersi scavalcare da chi, pur nel bisogno, può accampare pretese e ottenere diritti ormai negati ai residenti; dalla perdita dei più elementari diritti in ambito lavorativo, alla recente “teoria” secondo la quale “non è bene” che il popolo sia chiamato ad esprimersi su certi argomenti perché ignorante e incompetente. E potrei continuare…
Va da sé che una tale perdita di moralità porta, inscindibilmente, non solo alla perdita di determinati valori sociali ed umani, ma addirittura alla perdita di opportunità, nel senso che non si bada più – e come sarebbe possibile, sarebbe quasi un controsenso – a cosa è opportuno o inopportuno proporre; a cosa è opportuno o inopportuno fare. D’altronde, scusate, abbiamo rinunciato alla morale e dobbiamo stare a preoccuparci di cosa sia o non sia opportuno? Ridicolo no? Ecco allora che l’impensabile diventa non solo fattibile, ma pianificabile e proponibile; non solo possibile, ma reale. E’ nelle cose che alcuni possano cedere a certe lusinghe e a certe chimere ovvero, possano incorrere in errori involontari.
La legge provvede, quando ci riesce, a punire chi si è lasciato irretire e financo chi ha sbagliato, ahimè, in buona fede; ed è giusto, credo, che sia così. Comprendo anche, e condivido, il principio secondo il quale con lo scontarsi della pena comminata, il reo sia da considerare libero da qualsivoglia addebito regresso e considerato pronto a reinserirsi a pieno titolo nella società avendo pagato il pegno che gli si è imposto. E tuttavia, alla luce di quanto avviene in questi anni sembrerebbe invece che tanto più si sbagli – non importa se in buona o in cattiva fede – tanto più si faccia carriera, tanto più si “salga” nella cosiddetta scala sociale; e questo scavalcando chi, a parità di competenze, non ha mai ceduto ad alcuna lusinga né ha mai commesso errori nello svolgimento delle proprie mansioni.
Non entrando nel merito degli specifici avvenimenti, essendo in corso il relativo procedimento giudiziario, osserviamo però in questi giorni, ad esempio, che Michele Mario Elia, attualmente imputato nel processo per la strage ferroviaria di Viareggio del 2009 dove si ebbero 32 vittime,viene nominatoamministratore delegato di Ferrovie dello Stato (1). Non discuto le capacità professionali di questo signore ma mi chiedo: era opportuna una nomina del genere? Non sarebbe stato il caso di attendere l’esito del processo? Non c’erano in tutta Italia altre figure in grado di occupare quel posto e quel ruolo? Ancora, è di poche settimane fa la notizia che Francesco de Lorenzo, “presidente della Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (FAVO), è stato confermato Presidente della European Cancer Patient Coalition (ECPC ), cui afferiscono oltre 400 associazioni di malati di cancro in tutta Europa.” (2). Come si ricorderà, è lo stesso Francesco de Lorenzo ex ministro della Sanità condannato, insieme a Duilio Poggiolini, al pagamento di 5 milioni di euro ciascuno allo Stato nell’ambito dell’inchiesta sullo scandalo della sanità del 1982-1992. Anche in questo caso, preso atto che l’ex imputato ha pagato il suo debito alla società, era opportuna questa conferma? E ancora prima, era opportuna questa nomina? Di nuovo: Non c’erano in tutta Italia altre figure in grado di occupare quel posto e quel ruolo? Come è noto, potrei continuare con altri numerosissimi esempi di tal guisa, ma sono certo che chi legge saprebbe contribuire con molteplici altri suggerimenti.
Per contro, non di rado, si assiste a circostanze per le quali chi in buona fede, forse anche adottando procedure burocraticamente e tecnicamente non impeccabili – non ho le competenze per dare giudizi al riguardo – interviene in difesa dei diritti della comunità, venga emarginato, isolato, condannato. E’, ad esempio, il caso del tenente della Polizia Provinciale Giuseppe Di Bello, condannato anche in appello per aver violato il segreto d’ufficio divulgando i dati sull’inquinamento delle dighe del lago Pertusillo in Basilicata (3). Le leggi vanno certamente osservate ed anche le procedure ed i regolamenti ma, visto che si era in presenza di un comportamento volto comunque alla tutela della pubblica incolumità ed alla salvaguardia dei diritti della Comunità, mi chiedo: possibile che il giusto principio della necessità dell’osservanza dei regolamenti, delle procedure e delle leggi non preveda al suo interno anche il principio della prevalenza della difesa del bene comune? Intuisco che l’armonizzazione di princìpi giuridici diversi non è cosa semplice né facile e non essendo un esperto di materie giuridiche non posso dare una risposta, ma da cittadino comune la questione mi lascia molto, molto perplesso. Anche qui comunque la domanda è d’obbligo: era opportuna questa condanna? (Opportuna mi chiedo, non giuridicamente corretta).
Ma è anche il caso del Capitano Gregorio De Falco, l’ufficiale della Capitaneria di Porto di Livorno che ordinò perentoriamente il ritorno a bordo del Capitano Schettino in occasione della tragedia della nave Concordia; quello del “…torni a bordo, cazzo!!!”. Da quanto si apprende da notizie attinte dal web, è stato trasferito d’ufficio ad altro incarico e, secondo quanto riportato nell’articolo di riferimento indicato in calce (4), sembra senza alcuna motivazione. Anche in quest’ambito gli esempi potrebbero essere innumerevoli. Ma indipendentemente dai casi specifici e più in generale, si ha la percezione, per non dire la certezza, di uno Stato che fa quel che vuole e che applica le leggi a suo esclusivo uso, consumo e interesse; uno Stato che ha poco o per nulla a cuore gli interessi dei cittadini e della comunità; uno Stato non più in grado (ma lo è stato mai?) di distinguere cosa sia opportuno da cosa non lo sia. Uno Stato che ormai, anche per questo, è opportuno abbandonare al suo destino.
Riferimenti: 1) http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/30/strage-di-viareggio-protesta-per-la-nomina-di-elia-un-altro-imputato-a-capo-di-fs/1007087/ 2)
http://www.quotidianosanita.it/cronache/articolo.php?articolo_id=40495
3)
4)