Quando entrano in scena i Normanni le questioni giuridiche siciliane diventano particolarmente controverse e soprattutto molto piú complicate rispetto alla piana condizione “provinciale” che per innumerevoli secoli aveva caratterizzato la Sicilia e questo ci costringe a tirare il freno a mano e a fare un po’ di “moviola” su quegli anni cruciali.
Per alcuni storici, andando alla sostanza, c’è poco da capire: l’XI secolo è quello in cui un popolo venuto dalla Normandia (e qualche secolo prima dalla Norvegia) passa dallo stato di capitani di ventura all’inizio del secolo a quello finale di padroni della Sicilia e di tutta l’Italia meridionale con la sola esclusione del piccolo Ducato di Napoli e dell’Abruzzo, questo ancora saldamente inserito nel sistema feudale dell’Italia centro-settentrionale.
Ma, seppure confusamente, anche allora c’era un diritto pubblico e un bisogno di legittimare le conquiste con il diritto. Ecco, noi – d’ora in poi – esamineremo con la lente d’ingrandimento tali questioni di legittimità dando su di esse anche il nostro modesto parere.
La prima fonte di complessità che incontrerà la condizione della Sicilia al suo rientro nel mondo cristiano era che essa aveva lasciato un mondo ancora complessivamente unitario, in cui era riconoscibile la traccia dell’antico Impero Romano, ed ora trovava invece “due” cristianità, l’una latino-occidentale e l’altra greco-orientale, che si erano a vicenda scomunicate e non piú riconosciute.
La frattura era cominciata proprio ai primi dell’800, quando la Sicilia si avviava a lasciare la Cristianità: il primo scisma religioso, poi faticosamente ricomposto, la rinnovazione dell’Impero da parte di Carlo Magno, anche questa poi faticosamente ricucita con Costantinopoli. Ma già sin dai tempi di Gregorio Magno (fine del VI secolo) il Papato scrollava la tutela dell’Imperatore d’Oriente e si ergeva a potenza politica autonoma. A quel tempo la Chiesa Romana aveva concentrato in Sicilia moltissime proprietà fondiarie. Negli anni successivi non sarebbero mancate le ritorsioni: la Sicilia tolta giurisdizionalmente alla Chiesa romana ed assegnata a quella orientale (poi arrivando – come abbiamo visto – all’autocefalia), la “potenza” del clero siciliano – proprio perché in bilico tra Est e Ovest – con l’espressione di ben quattro papi nel periodo d’oro (fine del VII secolo).
Nel 1054, poco prima dell’arrivo dei Normanni in Sicilia, il divorzio tra Oriente e Occidente, tra cattolici e ortodossi, fu definitivamente consumato.
In tutto ciò i papi non avevano rinunciato mai a questa influenza sulla Sicilia e, approfittando dell’oscurità dei tempi, trasformarono le antiche proprietà private possedute nell’isola, in rivendicazione di una sovranità pubblica e politica durante i secoli del “dominio saraceno”. Sovranità che – a nostro avviso – non avevano mai avuto; ma tant’è. Questa è quella che potremmo chiamare l’impostazione guelfa della Questione Siciliana.
Dal punto di vista degli Imperatori (d’Oriente e d’Occidente) e poi dei conquistatori Normanni, la Sicilia non era altro che quello che era sempre stata: una provincia a sé della Cristianità. Una terra romano-cristiana da liberare e di cui sarebbe stato signore chi l’avesse presa per prima. Per gli orientali, che mai riuscirono a recuperarla, si trattava di un semplice ritorno all’antichità romano-bizantina. Per gli occidentali, al pari di Italia, Germania, Francia, Danimarca, Inghilterra, etc., essa era potenzialmente uno dei tanti regni in cui si articolava la Cristianità occidentale sotto la sovranità alta, effettiva o teorica che fosse, del Sacro Romano Imperatore. Questa è quella che potremmo chiamare l’impostazione ghibellina della Questione Siciliana.
Diciamo “Regno” (come poi effettivamente divenne) e non “Ducato” o “Contea” proprio perché amministrativamente la Sicilia mai aveva fatto parte prima d’allora dell’Italia o di altro Regno romano-barbarico.
Diverso per l’Italia, tanto quella longobarda, quanto quella bizantina, che nel “Ducato” avrebbe trovato la sua tipica organizzazione territoriale. Abbiamo nell’Italia centro-settentrionale “ducati” che arrivano all’Unità d’Italia, poi corretti in “Granducati” (la Toscana) e “Marchesati” (Monferrato, Mantova,…) ma mai “regni”, perché il Regno era solo quello teorico d’Italia. Abbiamo, sul versante bizantino, il Ducato di Napoli, i Ducati di Puglia e di Calabria, lo stesso Doge veneziano, che altri non era se non un “duca repubblicano”.
La Sicilia, diversamente, non poteva proprio essere un “ducato”, se non con una proclamazione illegittima come vedremo piú avanti. Non è un capriccio o un caso se solo la Sicilia e la Sardegna, che non avevano fatto parte dell’Italia romana, ebbero la corona regale, e se lo stesso “Regno di Napoli” l’avrebbe derivata dalla Sicilia e non da propria dignità regale (esso era propriamente “Regno di Sicilia al di qua del Faro”) e, infatti, alla riunificazione del 1816, fu il nome siciliano ad essere esaltato e non quello napoletano.
Per capire bene il “titolo” (direbbero gli avvocati) della conquista normanna della Sicilia dobbiamo forse abusare un po’ della pazienza del lettore e ricordargli qual era lo status politico del Meridione d’Italia alla vigilia della venuta normanna. In sintesi:
– Nell’interno, il ducato longobardo di Benevento si era nel tempo frammentato, perdendo agli estremi i “principati” di Salerno e di Capua (a quei tempi “principato” era titolo generico di signoria, come sarebbe accaduto piú tardi per il Piemonte, e non era ancora sovraordinato a quello di Duca come sarebbe stato piú tardi nella scala araldica);
– Sulla costa, il dominio bizantino era organizzato nei due Ducati/Province di Puglia e Calabria, piú le repubbliche/ducati semi-indipendenti di Napoli, Sorrento, Amalfi e Gaeta.
Altri attori “esterni” erano i saraceni, che mai erano riusciti a stabilire signorie durature sul Continente ed adesso si erano già dileguati, il papa e l’imperatore d’occidente, che, a turno e in concorrenza, rivendicavano alte sovranità sui principati longobardi e cercavano, invano, di cacciare i greci.
In questo quadro s’inserirono i Normanni secondo la scaletta riassuntiva che si vuole proporre di seguito:
Famiglia Drengot:
Nel 1029 si fanno dare la piccola Contea di Aversa come vassalli del Duca di Napoli.
Nel 1038 ottengono l’investitura imperiale trasformando la piccola Contea in uno stato indipendente.
Nel 1062 si impossessano del Principato di Capua e del Ducato di Gaeta, creando un grande e unico “Principato di Capua” in mani normanne.
Famiglia Altavilla (Hauteville):
Nel 1043 Guglielmo Braccio di Ferro si fa investire Conte di Puglia (ma in realtà la Puglia è in gran parte ancora in mani bizantine ed è signore solo di poche terre intorno a Melfi) come vassallo del Principe di Salerno.
Progressivamente il dominio si estende in Basilicata, Puglia, Calabria, Campania e Molise.
Nel 1047 Drogone, succeduto l’anno prima al fratello Guglielmo, ottiene l’investitura imperiale trasformando la Contea di Puglia in uno stato indipendente dai longobardi di Salerno.
Nel 1051 Umfredo, appena succeduto al fratello Drogone, distrugge il Ducato di Benevento: la città è offerta al papa (gli rimarrà sino al 1860) il contado è tutto dei normanni che riconoscono l’alta autorità pontificia, diventandone nominalmente vassalli.
Nel 1056 Roberto il Guiscardo sottomette tutti i conti feudatari autoproclamandosi “duca” e dilaga in Calabria. Nel 1071 gli ultimi bizantini avrebbero abbandonato Bari; infine nel 1077 anche il Principato di Salerno (i cui confini politici coincidevano con quelli amministrativi dell’attuale provincia) entra nel “Ducato di Puglia e Calabria” facendo di Salerno la nuova capitale dello Stato.
Ma l’anno cruciale per la Sicilia è il 1059.
In quest’anno, infatti, Roberto è “investito” da Papa Niccolò II “Duca di Puglia, Calabria e… Sicilia!”, quando ancora questa era in mano arabe.
Lo stesso anno il fratello minore di Roberto, Ruggero, suo vassallo in quanto conte di Mileto, nell’estremo sud della Calabria, espugna Reggio ai bizantini e si affaccia sullo Stretto.
L’investitura fu quasi tenuta nascosta agli imperatori per diversi anni tanto palesemente illegittime erano le pretese papali su Puglia e Calabria, le quali, cessata l’autorità dell’Imperatore d’oriente, teoricamente potevano essere infeudate solo dall’Imperatore d’occidente. E infatti non facevano certo parte del Ducato di Benevento che aveva acquistato il papa qualche anno prima.
A che titolo dunque il papa investiva Roberto di terre che non erano sue? Per la falsa donazione di Costantino?
Ma a un certo punto – se vogliamo così dire – la soggezione del Sud d’Italia all’alta sovranità papale resterà legittimata dalla consuetudine dei secoli a venire.
Ma il colmo dell’illegittimità era nell’investitura di Roberto a “Duca di Sicilia”, di una Sicilia ancora tutta da conquistare. Intanto non era chiaro se si trattasse di un “riconoscimento”, sebbene a priori, o di una vera e propria “investitura feudale”. Le formule dei tempi distinguevano nettamente i due ducati (nella realtà unico) di Puglia e Calabria da quello “futuro” siciliano. E i giuspubblicisti siciliani dei secoli successivi avrebbero attestato che nessuno prima del XIII secolo aveva mai avanzato serie pretese feudali papali sulla Sicilia. Peraltro il papa dava a Roberto libertà di organizzare la Chiesa di Sicilia, ben sapendo che piú della metà dell’isola era musulmana, e il resto cristiana ortodossa: si trattava quindi di un’autorità puramente teorica.
Però i Normanni poi se ne sarebbero avvalsi e l’avrebbero anche fatta riconoscere nuovamente al Papa Urbano II con la famosa Apostolica Legazia che sottraeva al controllo papale la Chiesa Cattolica di Sicilia, – si badi – della sola Sicilia e non del Continente.
La vera incongruenza stava nella formula di “Duca di Sicilia”, cioè nel prolungamento dello Stivale, sino a comprenderne per la prima volta l’Isola come sua estrema appendice. E, in ogni caso, quando mai il papa era stato “signore” della Sicilia? Per le sole proprietà fondiarie di Gregorio Magno? Era questo il trionfo dell’impostazione guelfa.
Nella realtà, però, il vero conquistatore della Sicilia non sarebbe stato Roberto, ma proprio il fratello minore Ruggero, che da subito propese per la sovranità originaria sulla Sicilia senza alcuna subordinazione feudale (o quasi, come vedremo alla prossima puntata).
La successiva trasformazione in Regno e le icone dei Re Ruggero II e Guglielmo II direttamente incoronati da Cristo, e non dal papa, suggeriscono il fatto che a vincere infine fu l’impostazione ghibellina che, per ragioni ormai dette, era l’unica ad avere un qualche fondamento secondo gli ordinamenti del tempo e ad essere anche fortemente coerente con l’anima bizantina e cesaro-papista che ancora aleggiava negli ordinamenti siciliani.
Le cose, insomma, andarono un po’ diversamente da come il papa e il duca Roberto avevano immaginato. Ma le conseguenze di questa controversia sarebbero state lunghe e drammatiche e forse sono, molto alla lontana, la causa prima dell’incorporazione della Sicilia nell’Italia.
<Nell’immagine Roberto il Guiscardo, Duca di Puglia e di Calabria>