L’età ellenistica:
A differenza della Grecia propria e dell’Oriente la Sicilia non conobbe un vero e proprio Ellenismo dal III secolo a. C. in poi: mancavano le grandi monarchie assolute (quelle siciliane erano sempre un po’ “repubblicane”), restava la forte autonomia delle città-stato; in una parola la Sicilia si attardava sul classicismo e, non ultimo, fu tra le prime zone elleniche ad essere conquistata da Roma. Tuttavia in questo periodo si ricordano ancora figure importantissime per la storia della cultura mondiale: commediografi, come Apollodoro di Gela, poeti come Teocrito, eruditi poeti/filologi come Mosco, storici/utopisti politici come Evemero di Messina, e scienziati come il grandissimo Archimede, con il quale la Civiltà siceliota – per così dire – chiude nel più glorioso dei modi.
Teocrito, in particolare, vissuto tra il 305 e il 250 a.C. circa, fu l’inventore dell’Idillio o poesia arcadica, o bucolica. Nacque a Siracusa dove arrivò ad operare alla corte dell’ultimo grande re siceliota, Ierone II; poi si trasferì nella raffinata Alessandria d’Egitto, sotto la protezione dei re Tolomei, e infine nell’isola di Cos, dove morì. Di lui ci è pervenuto un corpus di poesie, 30 in tutto, ma sono noti altri titoli oggi andati perduti. Le sue poesie, che poi avrebbero fatto scuola nei secoli, dal poeta latino Virgilio fino alla moda dell’Arcadia nel XVIII secolo, descrivono ambienti pastorali ed agresti, immersi in una natura incontaminata, in cui personaggi mitologici, alcuni dei quali poi ricorrenti nei nomi, quali Tirsi o Dafne, vivono in un mondo semplice, poetando d’amore, spensierati. Non mancano talvolta in questi componimenti, pur un po’ devianti sul cliché della vita pastorale, spunti di vera lirica, descrivendo paesaggi in cui l’anima si rifugia libera, quasi come in un sogno. Fu anche grande cantore, più di altri contemporanei, dell’amore, in particolare di quello infelice e non corrisposto.
Accanto a queste poesie bucoliche Teocrito rivitalizza il genere del Mimo, tradizionale della Sicilia greca: celeberrima la scenetta delle Siracusane, fatta essenzialmente delle ciarle di due amiche che si vanno a trovare e che insieme si recano alla festa femminile del dio Adone. Non mancano nella sua produzione alcuni poemetti mitologici, o epigrammi, alcuni dei quali non solo tecnicamente impeccabili, ma capaci di una propria forza espressiva.
Teocrito, da buon siceliota, scriveva in genere in dorico stretto, ma giocava anche un po’ con gli altri dialetti letterari a lui noti: l’eolico, qua e là, e lo ionico.
Non era un filologo o teorico della poesia, come molti suoi contemporanei, come Callimaco che conobbe personalmente ad Alessandria. Era un “pratico”: le poesie preferiva scriverle, anziché teorizzarle o raccoglierle. Forse per questo il corpus a noi pervenuto è di qualche secolo dopo, non senza alcuni innesti che la critica contemporanea considera spuri.
Indimenticabili alcuni componimenti struggenti. Fra tutti si ricordi almeno il malinconico dolore del ciclope Polifemo per il suo amore non corrisposto, e impossibile, per la ninfa Galatea, e la figura di Simeta, umile donna, abbandonata dal suo grande amore che ripercorre tra la gioia del ricordo e l’amarezza del dolore mentre ricorre ad un sortilegio per farlo tornare a sé.
La figura di Archimede (287-212 a. C.) non merita particolari presentazioni. Grandissimo scienziato, non solo dell’Antichità, ma di tutti i tempi, segna anche fisicamente il troncamento della Civiltà Siceliota, ucciso come fu durante la presa di Siracusa da parte del console romano Marcello. Fu matematico, geometra, astronomo, meccanico ed ingegnere inventore di numerose macchine, anche quelle da guerra usate dai Siracusani durante l’ultima disperata difesa della loro città. A lui si deve il notissimo “Principio di Archimede”, la determinazione del peso specifico, progressi addirittura nell’analisi infinitesimale. Tranne nell’opera chiamata Sul Metodo, scritta nella koinè (sarebbe il greco tardo, derivato dallo ionico-attico, diffuso a partire dall’ellenismo, “corrotto” nella pronuncia, da cui sarebbe derivato il greco moderno), forse perché destinata ad un “collega” alessandrino, tutti gli altri suoi scritti sono in prosa dorica siciliana, anche se già sono evidenti le contaminazioni con la stessa koinè. Dopo di lui, anche se ancora diffuso nel parlato, il dorico si spegne nello scritto, essendosi imposta definitivamente una lingua formale comune a tutta la grecità. Pur in un ambiente ancora largamente deduttivo, per certi versi prefigura già quello che poi sarebbe diventato, secoli dopo con Galilei, il metodo sperimentale proprio della scienza moderna. E lo stesso Galilei lo considerò proprio maestro.
L’età romana:
L’età romana segna un declino verticale della cultura, sia in lingua greca sia in generale. Ridotto a colonia di selvaggio sfruttamento, il possedimento siculo non esprime più alcuna letteratura degna di questo nome.
Durante tutta l’epoca repubblicana tuttavia l’elemento greco resta prevalente. I pretori, e poi proconsoli, inviati da Roma si portavano dietro un interprete se non padroneggiavano bene il greco. Del resto Siracusa era rimasta la capitale provinciale, la vecchia reggia era diventato il “Palazzo della Provincia” e, per i rapporti interni, continuava a vigere la vecchia Lex Hieronina.
Le uniche due figure di un certo spessore le troviamo durante il principato di Augusto, nel passaggio dalla Repubblica all’Impero, e tutt’e due scrivono in greco.
Cecilio di Calatte, ebreo di Sicilia, fu autore di opere storiche, ma soprattutto di retorica, l’antica arte dei Siciliani.
Più grande fu Diodoro Siculo, di Agirio (la Agira di oggi) che scrisse la sua Biblioteca monumentale tra il 60 e il 30 a.C., progetto di una storia universale, per redigere la quale si era spostato personalmente nei paesi del Vicino Oriente in lunghi viaggi. La sistemazione cronologica dei fatti fino alle Guerre galliche di Cesare è molto accurata, ma Diodoro fu essenzialmente un compilatore di storiografia altrui, senza tentare sintesi particolarmente originali. Scriveva per erudizione in attico, dialetto ormai scomparso da secoli, e singolare appare che, arrivato a Roma nella maturità, vi abbia imparato il latino. Segno questo che un siceliota colto poteva, ancora nel I sec. a. C., vivere tutta la propria vita in Sicilia senza conoscere altro che pochi rudimenti della lingua dei dominatori.
Con Augusto però cominciò anche l’invio di colonie italiche nell’Isola, con il che l’equilibrio etnico della Sicilia dovette risultarne profondamente alterato.
Ancora nel II secolo d.C. troviamo un autore importante, Aristocle di Messina, aristotelico e storico della filosofia che sul tema scrisse diverse opere, tutte purtroppo perdute, tra cui una generale storia della filosofia, Perì philosophìas (Sulla filosofia) che troviamo molto citata nell’Antichità.
Ma la componente greca dell’Isola lentamente regredisce durante i secoli dell’Impero a favore di quella latina, al punto che alcuni studiosi hanno pensato che alla fine (intorno al V secolo d.C.) essa fosse del tutto scomparsa, vista l’estrema rarità di iscrizioni greche risalenti a quel periodo.
A nostro avviso, però, la lingua greca, nelle ultime fasi dell’Impero Romano si trovò nelle stesse condizioni in cui si sarebbe trovato il latino dopo, ai tempi d’oro dell’Impero Bizantino, cioè ridotto a lingua parlata da una parte della popolazione, specialmente nella parte orientale dell’Isola, con sempre meno tracce scritte. A riprova di questo sta la differenza indubbia che registriamo tra l’Italia riconquistata dai bizantini, che resta sempre latina e straniera ai greci, e la Sicilia, che sin troppo rapidamente vede riprevalere l’elemento greco che ad evidenza era ancora ben vivo quando il generale Belisario la strappò ai barbari per ridarla all’Impero Romano (questa volta d’Oriente). Per quel che vale, i nomi propri della prima era cristiana sono divisi in Sicilia circa a metà tra quelli di etimo greco e quelli di etimo latino, a differenza di quanto avveniva ad esempio a Roma o in Oriente. La Sicilia bilingue, così, traghettò l’età buia delle invasioni barbariche e giunse alla reconquista bizantina con cui i greci “ritornano” nel VI secolo d. C.
L’età bizantina:
Col ritorno dei greci, nella seconda metà del sesto secolo, il greco ricomincia a guadagnare terreno sul latino, dapprima poco, poi sempre di più, quando la Chiesa siciliana è staccata da Roma e unita a Costantinopoli, infine diventa dominante al punto che questa volta, non trovandosi più iscrizioni di alcun tipo in lingua latina, qualcuno ha addirittura messo in dubbio la stessa sopravvivenza del latino, o delle parlate romanze da questo direttamente discendenti, durante l’epoca bizantina. Ma è del tutto verosimile, studiando i fenomeni del siciliano, che così non sia stato e che, sia pure ripiegando, il “paleo-siciliano” si sia addirittura iniziato a formare, proprio per isolamento dal latino, con caratteri distinti giusto in questo periodo. Certo è che il greco, irrobustito anche da migrazioni di soldati e funzionari, ma anche di profughi e immigrati siriani o armeni, insomma da tutte le parti dell’Impero, è di nuovo lingua viva nell’Isola.
In un certo momento, addirittura, il bilinguismo della Sicilia conferisce alla sua Chiesa un particolare prestigio, ed è forse per questo che la Sicilia riesce ad esprimere in questo periodo ben quattro papi.
La letteratura che ci è pervenuta da questo periodo è molto più numerosa rispetto a quella dell’epoca antica, ma complessivamente è forse di minore originalità. La letteratura siciliana greco-bizantina è soprattutto una letteratura religiosa; anche quando si coltiva l’arte tradizionale dei siciliani, la retorica, questa ha per oggetto omelie ad oggetto sacro.
In generale la letteratura greco-bizantina, di quest’epoca e di quelle successive, può essere riassunta nei seguenti filoni, in ordine di importanza:
– teologia ed esegetica;
– oratoria sacra;
– storiografia;
– agiografia;
– poesia dei “melodi”;
– poesia lirica profana.
Già alla fine del VI secolo troviamo Gregorio di Agrigento, uno dei più illustri rappresentanti della cultura del suo tempo, la cui opera più importante è l’Esegesi dell’Ecclesiaste in dieci libri, in cui legge il famoso libro dell’Antico Testamento e si scaglia contro il razionalismo dei profani. Notevole è il fatto che Gregorio citi Aristotele, in un’epoca in cui in Occidente il grande filosofo era completamente dimenticato. In generale Gregorio propone sempre, delle Scritture, tre interpretazioni: quella letterale, quella allegorica e quella anagogica.
I papi siciliani Agatone, Leone e Sergio si dedicarono al canto sacro e alle lettere. Furono molto diffusi i canti sacri e preghiere per le varie ricorrenze liturgiche.
Fra i secoli VII e VIII è tutto un fiorire di pezzi di retorica sacra e di agiografie (vite romanzate di santi). Queste agiografie, pur con un tratto favolistico, spesso contengono un fondo lontano di verità, e quindi sono interessanti anche da un punto di vista storico. Il contenuto spesso da sacro diventa profano e si avvicina alla struttura del romanzo. In questo filone sono compresi pure i metafrasti, ovvero scrittori di leggende. Ed è notevole che molte di queste storie abbiano ad evidenza un uditorio e un linguaggio popolare, frutto come dovevano essere di racconti orali tramandati da una generazione all’altra, espressione quindi di una letteratura viva, vivace, anche se talvolta un po’ prolissa, che andava anche al di là del clero secolare e regolare (vescovi, preti e frati) che erano praticamente gli unici a potersi dedicare alla letteratura. Fra queste opere si ricordino almeno la Vita di San Pancrazio, di Evagrio di Taormina, la Vita di San Filippo di Agira di Eusebio, che ci racconta dell’ultimo sradicamento delle sacche di paganesimo nell’interno della Sicilia, o il vero e proprio romanzo sacro della Vita e Martirio dei santi Alfio, Filadelfio e Cirino.
Discorso a parte merita la “poesia melodica”. In questa alcuni studiosi hanno voluto vedere l’antica sopravvivenza della poesia bucolica teocritea, la quale pure, nei suoi soggetti più antichi, aveva la natura di poesia sacra dedicata a una divinità minore (già a un “santo”, ante litteram). Questa vena riemerge prepotente ad oggetto sacro-cristiano in questi secoli e sopravvive anche durante l’avanzata e l’occupazione saracena.
(segue)