Mentre i siciliani collaborazionisti dicono che è ora di finirla con “piagnistei” e “vittimismi”, noi diamo i dati nudi e crudi, letti dai Conti Pubblici Territoriali dello stesso Governo della Repubblica Italiana, aggiornati al 2014 (quelli del 2015 saranno peggiori c’è da giurarci).
Due avvertenze: – la prima è che ci riferiamo ad entrate e spese correnti, essendo trascurabili quelle in conto capitale; la seconda è che si ragiona in milioni di euro; nei conti di finanza pubblica il milione di euro è quello che per noi comuni mortali è l’euro, lasciamo perdere i moralisti che fanno i titoloni di giornale su poche decine di migliaia di euro. In Sicilia, nel 2014, sono state riscossi 42 miliardi 610 milioni e 260 mila euro. Questo numero non tiene conto dei gettiti il cui presupposto nasce in Sicilia e “per ragioni amministrative” è riscosso altrove (in pratica l’art. 37 dello Statuto e l’art. 4 del Decreto 1074/1965). Quel gettito, mai correttamente stimato, è certamente nell’ordine di alcuni miliardi di euro l’anno.
Da questo gettito dobbiamo togliere le entrate previdenziali, volte a finanziare la previdenza e l’assistenza, che nulla hanno a che vedere con i conti regionali e che, anche in caso di indipendenza, servirebbero a pagare le pensioni “future” (oltre all’assistenza presente) e non quelle “presenti” che resterebbero a carico dell’INPS (a meno che questi non devolva alla Sicilia il montante contributivo dei contributi versati dai contribuenti siciliani nel tempo). Questi contributi ammontano 11.252,76 milioni di euro.
Quindi le entrate vere (anche senza contare l’art. 37) riscosse in Sicilia sono state pari a 31.357,52 milioni di euro. Se contassimo anche l’art. 37 potremmo dire che la Sicilia produce circa 35 miliardi di entrate pubbliche. Secondo noi questo gettito è sottostimato, perché, su un PIL di 80 miliardi circa, vorrebbe dire che la pressione fiscale è abbondantemente sotto il 50 %, il che è falsificato dai fatti. Ma diamo per buono questo dato.
Veniamo alle spese. Dapprima il dato grezzo, poi scopriamo i trucchi contabili. Il dato grezzo parla di 48.675,91 milioni. Sembrerebbe esserci un residuo negativo di 6 miliardi. Le cose non stanno così e lo dimostriamo subito. Intanto dobbiamo, anche da questo lato, togliere le spese previdenziali (19.578,55) in quanto – come detto sopra – queste sarebbero comunque a carico dell’INPS anche in caso di indipendenza della Sicilia, e quelle assistenziali (3.347,70) perché trovano la loro contropartita nei contributi assistenziali e previdenziali che abbiamo sottratto dal lato delle entrate. Naturalmente stiamo togliendo solo le spese assistenziali e previdenziali a carico delle amministrazioni centrali. Quelle a carico di amministrazioni regionali e comunali (e varie) le lasciamo.
La spesa pubblica, al netto del comparto previdenziale, si riduce a 25.749,66, con un residuo ATTIVO DI 6 MILIARDI L’ANNO (sempre senza l’art. 37). Cioè la P.A. in Sicilia, fuori dal comparto previdenziale, in Sicilia fa sparire dalla circolazione ogni anno 6 miliardi su 80 di PIL che vanno altrove. Andando ancora più in profondità nei costi scopriamo che alla Sicilia sono attribuite quote di costi “centrali”, come missioni all’estero, spese diplomatiche, etc. Difficili da scorporare, ma non per questo meno fasulle. Quelle evidentemente “NON SICILIANE” sono i 988,03 milioni di “spese non ripartibili” (interessi sul debito dello Stato?) e, addirittura, “spese di amministrazione generale dello Stato” (costo del Senato, Presidente della Repubblica, etc.), attribuite alla Sicilia per 4.597,86 milioni di euro.
Togliendo queste spese “romane” ribaltate impropriamente alla Sicilia, le vere spese della Sicilia (compresi però ancora altri ribaltamenti occulti, come quelli sulla difesa) ammontano a 20.163,77 milioni di euro. Riepiloghiamo. La Sicilia produce, questa volta tenendo conto dell’art. 37, circa 35 miliardi entrate pubbliche correnti a fronte di circa 20 miliardi di spese. Con un residuo attivo di 15 miliardi l’anno noi potremmo addirittura fare fronte allo sbilancio previdenziale (circa 12 miliardi di differenza tra entrate e uscite), nel caso l’Italia ci facesse una guerra economica ricusando persino il pagamento delle pensioni, e resterebbero soldi... A questi si aggiunge la notizia, di questi giorni, di un’evasione stimata in circa 3 miliardi di euro l’anno. In gran parte evasione di necessità, ma pur sempre evasione che, recuperata, darebbe un ulteriore margine alle manovre finanziarie.
Ma noi non dobbiamo pensare alla guerra, dobbiamo pensare ad un processo in cui pacificamente la Sicilia si riprenda la propria sovranità fiscale. In queste condizioni c’è l’imbarazzo della scelta tra un grande programma di infrastrutture, maggiori e migliori servizi pubblici, sostegno a chi è rimasto tagliato fuori dal mercato del lavoro o detassazione. Con questi numeri potremmo tranquillamente portare l’aliquota fiscale ordinaria al 20 % per tutti i redditi, tutt’al più, per ragioni di equità, aggiungendo un ulteriore 5 % solo sulle quote di reddito maggiori di 100.000 euro, e detrazioni crescenti al decrescere del reddito e all’aumentare delle persone a carico, sino ad arrivare ad una soglia di esenzione per i redditi di sussistenza. Con questi numeri potremmo portare l’aliquota IVA ordinaria al 10 %, e quella agevolata al 3 %. Potremmo “forfetizzare” l’imposta per le microimprese e per le imprese agricole, e dare un reddito di cittadinanza a tutti gli espulsi dal mercato del lavoro, a tutte le casalinghe e a tutti coloro che, per altre ragioni, non hanno un reddito proprio, magari in maniera differenziata in funzione del grado di tutela sociale che si ritiene di dover attribuire loro. Naturalmente per fare ciò dovremmo riappropriarci della sovranità fiscale. Solo sostenendo “Siciliani Liberi” questo è possibile. Per questo ci vuole l’aiuto di tutti, ma degli imprenditori siciliani in prima linea, perché solo col loro aiuto questo progetto potrà diventare realtà.